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La Russia accusa la Libia di addestrare i “ribelli siriani”

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L’ambasciatore russo presso le Nazioni Unite ha accusato il governo libico di ospitare un campo d’addestramento per dei “ribelli siriani” che hanno condotto delle azioni contro il regime di Damasco. “Abbiamo ricevuto delle informazioni secondo le quali esiste in Libia, col pieno sostegno delle autorità, un centro d’addestramento speciale per dei ‘ribelli siriani’; queste persone in seguito vengono inviate in Siria per attaccare il governo in carica”, ha detto Vitaly Churkin, durante una riunione del Consiglio di Sicurezza dedicata alla Libia, alla presenza del primo ministro libico ad interim ‘abd er-Rahîm al-Kîb.

“Questa situazione è totalmente inaccettabile sul piano legale, poiché simili attività minano la stabilità del Medio Oriente”, ha rincarato l’ambasciatore mandando su tutte le furie il rappresentante libico.

Il diplomatico russo ha inoltre sottolineato che il suo Paese è certo che l’organizzazione estremista “al-Qâ‘ida” sia presente in Siria: “L’esportazione della ribellione si trasformerà nell’esportazione del terrorismo?”.

Churkin ha poi chiesto un’altra volta che la NATO presenti le sue scuse per gli attacchi sferrati l’anno scorso contro la Libia e che avevano provocato la morte di civili.

Ma il primo ministro libico afferma che un’inchiesta è già stata condotta: “La questione, che tocca il sangue dei libici, non dovrebbe diventare tema di propaganda politica utilizzata da un paese contro l’altro”.

“Spero – ha detto – che tale questione non venga evocata per impedire alla comunità internazionale d’intervenire negli affari di altri paesi in cui la popolazione è massacrata”.

Ma il primo ministro libico non ha risposto alle accuse russe circa l’addestramento, in Libia, di oppositori siriani.

(Traduzione di Enrico Galoppini)

Fonte: Al-Manar (Libano)

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Lo “scontro di civiltà” in Costa d’Avorio

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Nell’indifferenza totale della diplomazia internazionale, vaticana compresa, continuano le atrocità “postelettorali” in Costa d’Avorio.

Città, villaggi e campagne ne sono stati gravemente interessati.

La Chiesa cattolica non è sfuggita a questi crimini, ma i cantori dello “scontro di civiltà” non sono interessati a lanciare l’allarme trattandosi di un regime golpista, quello di Alassane Ouattara, insediato e sostenuto con la forza da Francia e Stati Uniti d’America.

In un documento riservato di cui siamo venuti in possesso¹, c’è l’elenco dettagliato di tutti gli attacchi condotti dai miliziani delle Forze Repubblicane della Costa d’Avorio (FRCI) contro i sacerdoti e le proprietà dell’Arcidiocesi di Gagnoa (dipartimento e capoluogo della Regione di Fromager).

Le parrocchie e le comunità religiose devastate tra marzo 2011 e gennaio 2012 sono le seguenti:

Parrocchia Saint Jean-Marie Vianney de Guéssihio, Parrocchia Saint Christophe d’Oumé, Parrocchia Notre Dame de l’Assomption de Zikisso, Parrocchia Saint Barthélemy de Galébré, Parrocchia Saint Jean de la Croix de Nagadougou, Parrocchia Sainte Marie Mère de Dieu Niambézaria, Parrocchia Sainte Thérèse de l’Enfant Jésus de Kehidjedje, le suore del Centro di accoglienza diocesano Emmaus, la residenza dell’Arcivescovo, Parrocchia di Saint Pierre de Goudouko, Parrocchia di Diegonefla, Comunità delle suore di Notre Dame des Apotres de Divo, Comunità delle suore di Gran-Lahou visitation, Parrocchia di Kpapekou, mentre di altre chiese danneggiate mancherebbe la documentazione.

Il totale generale delle perdite materiali subite dall’Arcidiocesi di Gagnoa, nello stesso periodo, ammonta a 88.235 euro ma soltanto 8 parrocchie, 2 comunità religiose e un collegio cattolico hanno fornito l’elenco dettagliato dei danni subiti.

La situazione di terrore in Costa d’Avorio non consente alle autorità cattoliche del paese di rilasciare dichiarazioni ufficiali e di certo non sono sufficienti i troppo generici appelli del Pontefice alla riconciliazione².

Paradossalmente l’unico imprigionato ed accusato di attività criminali è stato proprio la vittima del golpe orchestrato dalle potenze occidentali durante la loro aggressione alla Libia nel 2011, cioè il legittimo Presidente ivoriano Laurent Gbabo, che rifiutò dopo le elezioni un esilio dorato a Washington pur di rimanere nel proprio paese.

La recente decisione della Corte Penale Internazionale (CPI) di estendere il periodo delle sue inchieste alla precedente guerra civile 2002-2010, sembra perlopiù una gentile concessione degli Stati Uniti alla “forma” e un mezzo per sbarazzarsi di Guillaume Soro (ex capo delle Forze Nuove, oggi FRCI)³.

Nulla di nuovo, si tratterebbe della medesima arma ricattatoria utilizzata in Kosovo ai danni degli ex guerriglieri dell’UCK, coinvolti in spaventosi crimini di guerra ed affari “sporchi”.

Nel frattempo, dopo la guerra alla Libia, la diplomazia di Parigi continua la sua strategia di penetrazione in questo continente a beneficio dei propri interessi economici e di Africom.

Tenendo sotto pressione l’Algeria (della quale ha avuto l’autorizzazione a sorvegliare la lunghissima frontiera con la Libia) la Francia di Sarkozy punta ora a destabilizzare il Mali, sollecitando la sollevazione dei Tuareg e l’indipendenza della regione dell’Azawad, ricca di giacimenti di uranio non ancora sfruttati.

La Cina, principale concorrente delle potenze atlantiste in Africa, è avvisata.

 

NOTE
1. Rapport des evenements postelectoraux sur la vie de l’Eglise Catholique de l’Archidiocese de Gagnoa.
2. http://www.avvenire.it/Mondo/Pagine/costa-d’avorio.aspx
3. Francesca Dessì, “Rinascita”, si vedano i suoi tre ottimi articoli sulla Costa d’Avorio pubblicati il 25, 28 e 29 febbraio 2012.

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Cipro, un enigma da risolvere per la Turchia

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Il ministro per gli Affari europei di Ankara, Egemem Bağış, ha sottolineato sulla stampa nazionale e in incontri pubblici la soluzione più gradita alla Turchia della questione cipriota: l’unificazione dell’isola, nella traccia di quel piano Annan del 2004 (previsione di uno Stato federale unito e indipendente) accolto dal 64,9 % dei turcociprioti e bocciato dal 75,8 % dei grecociprioti, con conseguente fallimento del progetto sostenuto dall’ONU.

Le altre ipotesi prospettate da Bağış – due Stati entrambi riconosciuti dalla comunità internazionale, annessione turca dell’attuale Repubblica turcocipriota – sono da considerare in subordine, e probabilmente interlocutorie.

Comunque sia, l’importanza geopolitica di Cipro è considerevolmente aumentata da quando importanti giacimenti di idrocarburi sono stati rinvenuti nei pressi delle sue coste e – altro aspetto abbastanza recente – da quando le relazioni fra Turchia e Israele sono sensibilmente peggiorate: Tel Aviv infatti ha lavorato in profondità nel consolidamento dei suoi rapporti con la Grecia – uno Stato economicamente in ginocchio e privato di sovranità politica, come purtroppo le cronache quotidiane testimoniano – e con la Repubblica cipriota, con la quale sono stati firmati all’inizio di quest’anno due accordi di cooperazione nella difesa e nell’intelligence. A ciò si aggiunge il contenzioso fra Turchia e Unione europea che vede la questione cipriota come elemento di contrasto e di difficoltà nel dispiegarsi del dialogo fra le parti. Qui l’incapacità e la cattiva volontà delle istituzioni europee – sommate alla passata scarsa lungimiranza turca e greca – sono evidenti, e hanno contribuito alla persistente chiusura della Ue nei confronti di Ankara. L’intervento di Israele nell’area non fa che rendere più difficile una soluzione, rafforzando la diffidenza delle istituzioni “europee” verso la Turchia. E’ pure da sottolineare come l’importazione di risorse energetiche costituisca il maggior peso per l’espansione dell’economia turca, un’economia che corre agli stessi ritmi di quella cinese (con un aumento del PIL del 9,6 % nei primi nove mesi del 2011) ma che deve preoccuparsi in prospettiva dell’acquisizione di tali risorse, che ora il mar del Levante sembra garantire in una certa misura.

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Stratfor: fra discutibile scientificità e “soft power” statunitense

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Wikileaks ha messo recentemente “a nudo” le attività di Stratfor, azienda texana che si occupa di analisi geopolitiche.
Lo scandalo che ne è seguito ci fornisce la possibilità di spunti di riflessione non solo sulla natura di tale ente non governativo e su come operi, ma soprattutto pone un evidente problema sulla scientificità delle notizie da cui i media occidentali traggono a piene mani per fare informazione.
In particolare, con l’aiuto degli hacker di Anonymous pare si stia scoprendo come Stratfor sia un vero e proprio centro di potere operante in favore del governo nordamericano attraverso la vendita di informazioni di intelligence agli alleati e, allo stesso tempo, costruisce “disinformazioni ad hoc” a tutto tondo al fine di sfruttare l’uso di un soft power, sempre più potente nell’era dei media.

Cos’è Stratfor e come opera?

Le recenti rivelazioni di Wikileaks sulla reale natura dell’azienda texana Stratfor e delle sue reali mansioni di intelligence privata al servizio degli Usa offrono numerosi spunti di riflessione su cui indagare; dobbiamo chiederci, in primis, cosa sia questa azienda, come operi, a favore di chi e per quali interessi.

Una volta che saremo in grado di rispondere a tali quesiti riusciremo ad addentrarci in questioni più complesse riguardanti l’opinabile scientificità delle informazioni e degli studi, mai messi in dubbio dai media nostrani di cui usufruiscono acriticamente, e infine comprendere quanto sia forte l’influenza che questi istituti esercitano sui poteri economici privati e statali e quanto essi a loro volte ne siano influenzati.

Sebbene non si possa ancora discorrere molto intorno ai contenuti delle numerose e-mail che Anonymous ha recentemente reso pubbliche, le quali risultano essere per i più le vere fonti di interesse primario svelanti nuovi e più disparati scenari geopolitici, l’intento che qui ci poniamo è di costruire una base solida di analisi partendo delle questioni citate in precendenza che andrà via via ampliandosi in base alle informazioni che avremo in possesso nei giorni a venire.

Innanzitutto cosa è Stratfor?

Essa è null’altro che un centro di potere vicino al governo americano (e non è l’unico, basti pensare a numerosi istituti molto potenti facenti capo a Washington) per il quale lavorano molti ex agenti governativi dei vari dipartimenti e che opera nell’ombra in coerenza con gli interessi “atlantici” fornendo servizi di intelligence e consulti a privati grazie alle ampie informazioni di cui dispone, nonché all’usuale brodo professionale e culturale di vicinanza con le istituzioni governative ufficiali.

Questa azienda può considerarsi un vero e proprio attore della politica internazionale non autonomo ma servente “i poteri forti”; sebbene non sia ancora chiaro fino a che punto possa incidere su scenari regionali e globali, è indubbio che le informazioni di cui dispone ne fanno un player strategico.

La fitta rete di clienti e privati di cui dispone, come accennato, non sono altro che governi, aziende ed enti governativi filo-atlantisti al servizio diretto e indiretto di Washington e pertanto l’influenza che esercita, come vedremo, è consistente.

Stratfor opera concretamente come un cavallo di troia del governo americano; essa non è ciò che sembra e sebbene noi non ci siamo accorti di cosa realmente stia nascondendo al suo interno, ha potuto portar avanti le sue strategie per anni.

Sappiamo che attinge informazioni grazie a una rete capillare di informatori posti ai più alti livelli governativi e non: da diplomatici a giornalisti, coloro che hanno accesso a informazioni confidenziali lavorano per questa azienda: come molti l’hanno definita, essa era un’ombra poiché oggi è possibile delinearne i veri contorni.

Grazie a queste informazioni non elabora solo analisi geopolitiche a cui tutti possono accedere via web, tramite newsletter: esse vengono altresì vendute da Stratfor al miglior offerente fornendo sovente consulenze che si traducono in vere e propri lavori di intelligence su commissione.

Si potrebbe dire, senza esagerare, che nell’epoca globale in cui viviamo, sapere è potere.

I casi di cui stiamo leggendo in questi giorni riguardano per lo più grandi compagnie che hanno usufruito di tali servigi come per esempio la Coca Cola; tuttavia quando potremo avere accesso alle e-mail riguardanti le politiche dei players della politica internazionale, da quel momento potremo aggiungere nuovi tasselli al mosaico Stratfor.

La non-scientificità di questi istituti si traduce in soft power

Dunque la reputazione di azienda deputata ad analisi geopolitiche che si è creata nel tempo, lascia spazio a quella di ente non governativo e attore chiave per gli Usa.

Il fatto che Stratfor sia riuscita a passare come centro di ricerca scientifico e neutrale quando invece è un centro di potere privato con legami istituzionali non deve destare stupore.

Essa ha convissuto con il governo americano che ne ha fatto un’ombra della Cia (così era conosciuta dagli esperti fino ad oggi) costruendole un facciata artificiale ad hoc non facilmente verificabile; gli stessi informatori non avrebbero guadagnato nulla dal rivelare la scomoda verità rischiando inutilmente i contatti con le alte posizioni governative.

Essa dunque uno dei veri e propri centri di diffusione della strategia interna e internazionale statunitense attraverso l’uso del soft power.

Ecco dunque il risultato finale delle sue azioni: promuovere il soft power americano che per noi si traduce in studi, conoscenze utilizzate dai decisori, opinioni su riviste e quotidiane; è uno strumento di maggior integrazione nella sfera degli interessi americani per gli Stati appartenenti alla sfera di influenza angloamericana, mentre per i governi ostili è uno strumento di persuasione.

Per quando riguarda il primo punto ( che in questa analisi ci interessa maggiormente) ecco che questo “potere leggero” esercitato su di noi mette in crisi il rigore e la scientificità di tutto ciò che si definisce informazione, di cui noi disponiamo quotidianamente e che anima quotidianamente le stanze dei bottoni e le nostre università.

Il soft power ne incide inevitabilmente, disintegrando il confine tra ciò che è autorevole e ciò che non lo è.

Stratfor infatti veicola informazioni, costruite ad hoc, di retaggio nordamericano, manovrate per fini specificatamente geopolitici da cui i nostri media e i nostri analisti attingono a piene mani per fare informazione; basti pensare alla sfilza di agenzie di stampa che costantemente ci riportano notizie targate Stratfor, e ai vari analisti nostrani che la citano senza nessuno scrupolo di correttezza delle fonti.

Viene considerata autorevole e affidabile quando in realtà calpesta i principi scientifici a favore di interessi specifici.
Lo sforzo che gli analisti, i decisori e i media europei dovrebbero fare, alla luce di quanto risulta sempre più evidente oggi riguardo le “disinformazioni” provenienti da fonti americane per lo più pilotate, diviene necessariamente quello di non prenderle per buone ma operare una comparazione con altre fonti al fine di filtrarle correttamente.

Questo ordine di cose oltre a porre un grosso problema di opinabile scientificità dell’informazione va ad intaccare il rigore di studi scientifici sulla politica di stampo americano che da sempre fanno parte del bagaglio culturale di coloro che si avvicinano allo studio della politica internazionale.

Ciò che dovrebbe essere oggettivo e neutrale non lo è più.

Ecco che il soft power americano rivive una nuova età dell’oro in un’accezione ancor più decisiva; nell’era post-moderna in cui viviamo, caratterizzata dal facile accesso alle informazioni grazie al web e non solo, poter disinformare o costruire informazioni ad hoc, significa creare una nuova forma di dominio più significativa di una semplice conquista territoriale del XX secolo o della frenetica corsa alle risorse geopolitiche di questa epoca.

Qui si conquistano le menti; si segue involontariamente e non coscientemente un modello americano a tutto tondo.

Orwellianamente, sembra davvero possibile immaginare noi stessi davanti ad un Grande Fratello che tutto controlla.

Stratfor protagonista di strategie geo-economiche?

Ora rispondiamo all’ultimo quesito che ci siamo posti: se parlare di influenza significa discutere di soft power americano, cerchiamo di capire nello specifico quanto forte sia l’influenza che questi istituti esercitano sui poteri economici privati e statali e quanto essi a loro volta ne siano influenzati.

Ovviamente non sarà la singola Stratfor a influenzare le varie politiche, ma di certo concorre a farlo e in maniera piuttosto massiccia, come andremo subitamente discorrendo.

La più potente e discussa banca d’affari del mondo, la statunitense Goldman Sachs, voleva sfruttare le informazioni geopolitiche riservate dell’agenzia privata d’intelligence americana Stratfor per fare “insider trading” e speculare sui mercati valutari e dei titoli di Stato attraverso un fondo d’investimento ad hoc denominato StratCap.

L’obiettivo era quello di utilizzare tali informazioni e analisi per commerciare nel campo degli strumenti geopolitici, in particolare titoli governativi, valute e simili nei mercati dei Paesi emergenti.
Va da sé che questa azienda texana sia in grado di sviluppare e pilotare strategie geo-economiche che, riflettendosi negativamente sui mercati internazionali, da un lato acuiscono il peso specifico di poteri economici privati il cui obiettivo risulta essere il profitto e dall’altro può costituirne di nuovi.

Dall’esempio addotto si evince come l’influenza si traduca in vera e propria manipolazione del mercato che si trova alla mercé di questi istituti, come abbiamo potuto appurare sulla nostra pelle con le valutazioni delle agenzie di rating (private eppure legate alle istituzioni Usa anch’esse).

L’influenza esercitata da Stratfor risulta essere tanto ampia quanto è il bagaglio di informazioni in suo possesso e da come intende o meno impiegarlo.

Goldman e Sachs nonostante i possibili profitti, diviene marionetta inconsapevole della Stratfor, marionetta di un centro di potere americano che fornisce informazioni “americane”. Ciò alimenta un circolo vizioso di difficile comprensione, ma che evidentemente è la particolarità di molte organizzazioni globali odierne, siano o non siano esse legate ufficialmente con il governo di Washington.

Conclusione

Dalle prime rivelazioni di Wikileaks si evince come il soft power nordamericano sia una delle armi più potente di cui questo governo può disporre.

Si parla molto e molto spesso di declino della superpotenza americana; se questo in parte è corretto, poiché alla luce della crisi economica vi sono stati sostanziali tagli ai budget Usa e l’emergere di nuove potenze ha causato la conseguente ridefinizione di strategie sullo scacchiere mondiale che ne hanno rimodulato la presenza, è pur vero che nessuno Stato, ente sovranazionale o più in generale attore internazionale, disponga dell’uso di un soft power determinante come quello statunitense.

Non la Cina, la quale sta tentando timidamente di colmarne il gap attraverso la creazione di media internazionali che divulghino informazioni in lingua inglese simili alla CNN ; chi controlla il soft power conta terribilmente in politica internazionale.
Stratfor rappresenta, in tal senso, un’lteriore risorsa ; come abbiamo visto questo centro di analisi geopolitici è un centro di potere in grado di influenzare le politiche filo-occidentali agendo come cassa di risonanza.

La domanda che sorge spontanea è: quante “Stratfor” ci sono? Probabilmente molte.

Il vero problema è che agiscono come ombre ed operando come tali, risulta arduo pensare che possano essere “smascherate” nel breve periodo.

Non è ancora possibile affermare quanto l’ influenza di questo “nuovo” centro di potere sia determinante; è possibile sostenere che esso sia l’esempio di come gli Usa siano ancora una super-potenza in grado, più di quanto pensassimo, di controllare l’informazione e la formazione così da servirsene a piacimento per i propri scopi.

* Vismara Luca Francesco è dottore magistrale in Relazioni Internazionali presso l’Università Statale di Milano

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Putin, il nuovo Pietro il Grande?

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Marc Rousset, Polémia, 5 marzo 2012

Gli Stati Uniti, dopo aver avallato il serpente Putin dopo l’età dell’oro di Gorbaciov e Eltsin, del declino accelerato e perfino della prossima frammentazione della Russia, sognata da Zbigniew Brzezinski nella Grande Scacchiera (1), oggi disperano, perdendo la speranza di sbarazzarsi di Putin, così come si sbarazzarono del generale De Gaulle nel 1969. Questo spiega il tentativo disperato di una nuova rivoluzione arancione in Russia, con il nuovo ambasciatore USA a Mosca, Mac Faul, che si definisce “un esperto di democrazia, movimenti antidittature e rivoluzioni”. L’attuale opposizione, senza leader, senza alcuna unità, con tendenze diametralmente opposte al suo interno, è una creazione dei media occidentali; ma sembra in realtà l’armata Brancaleone e ricorda la favola di Jean De La Fontaine delle rane che chiedevano un re!

I popoli, nelle democrazie occidentali, da tempo non supportano statisti con una visione storica e che chiedono autorità, impegno, perseveranza, il coraggio non solo di riprendersi, ma di sviluppare l’ampliamento e la potenza di un paese. Preferiscono il pentimento, il piacere, il pensionamento all’età di 60, le 35 ore, il lassismo e uno svergognato indebitamento pubblico; ed è anche più facile per essere rieletti!

Gli Stati Uniti credevano quindi di aver in Medvedev un nuovo Gorbaciov, che in nome dello sviluppo economico, della libertà di espressione e del dirittumanismo alla russa, avrebbe di fatto, con la lode e l’incoraggiamento dell’Occidente, finito l’opera di distruzione massiccia della potenza dell’Unione Sovietica iniziata da Gorbaciov, ancora oggi popolare in tutto il mondo, ma non nella sua patria! L’errore grottesco di Medvedev di astenersi alle Nazioni Unite dal porre il veto allo sfacciato intervento militare della NATO in Libia, dietro lo schermo umanitario, dava delle speranze agli Stati Uniti e all’occidente. Ciò che insaporiva la buona minestra, era l’ingenuità e non l’invidia che mancava ad Alain Juppé, che eccelle in questo campo, di giocare alla Russia lo stesso trucco riguardo la Siria. Vladimir Putin, riprendendosi il controllo della politica estera, ha sventato in modo preveggente i piani dello Zio Sam in Siria e in Medio Oriente! Venendo rieletto da 70 milioni di russi, con quasi il 64% dei voti, a Presidente della Federazione Russa, potrebbe ostacolare in modo irreversibile e per altri dodici anni, il progetto degli USA di accerchiare la Russia e la Cina!

Un autoritarismo necessario

Putin è l’uomo che gli statunitensi non si aspettavano e che non solo ha raddrizzato la Russia, ma l’ha salvata da un smembramento in tre tronconi. Il sogno geopolitico degli Stati Uniti, se la Russia avesse perso la guerra in Cecenia, era quello di farne una nuova Grande Polonia, riducendola a Stravopol, punto di partenza della colonizzazione russa nel XIX secolo.

Putin si è anche opposto con successo allo sfruttamento delle risorse naturali in Russia da parte di gruppi stranieri, obiettivo dichiarato di Mikhail Khodorkovsky, capo della Jukos, che è stato arrestato il 25 Ottobre 2003 in un aeroporto in Siberia, mentre tornava da un forum affaristico a Mosca, di pochi giorni prima, in compagnia di Lee Raymond, direttore della Exxon, l’azienda che era in procinto di partecipare con 25 miliardi di dollari, alla fusione Jukos-Sibneft. I capitali statunitensi della Exxon-Mobil e Chevron-Texaco, infatti, volevano infiltrarsi con una quota del 40% nel santuario siberiano degli idrocarburi russi. Perdendo le sue risorse finanziarie, infine, la Russia avrebbe perso ogni chance di riprendersi.

Putin è riuscito finora a contenere, ma non a rompere completamente, l’accerchiamento da parte della NATO e del gasdotto Baku-Tbilisi-Ceyhan (BTC). Con il programma dello scudo antimissile che ritorna all’ordine del giorno, gli Stati Uniti avranno un avversario difficile che continuerà a dirgli il fatto loro.

Vladimir Putin è anche l’uomo del KGB che ha visto arrivare, e riuscire ad affrontare fino ad oggi, tutte le riuscite rivoluzioni arancioni in Ucraina, Georgia, Kirghizistan, Uzbekistan; le attuali e future manifestazioni anti-Putin in Russia non sono che il loro canto del cigno, un ultimo singulto, un ultimo tentativo da parte dell’Occidente di sbarazzarsi di Vladimir Putin!

Il nuovo presidente ha fatto affidamento sui valori tradizionali, al senso di grandezza, al patriottismo e alla Chiesa ortodossa per evitare il “disastro”. L’autoritarismo è perfetto ed è assolutamente necessario anche in Russia – come lo è in Cina, del resto – per evitare la temuta implosione del paese. Per quanto riguarda la corruzione, ha egualmente continuato incessantemente in Ucraina con l’avvento al potere della musa della rivoluzione arancione, Julija Tymoshenko; ciò che tutti i russi sanno, è che questo potere politico forte è un antidoto assai migliore delle oligarchie politiche di stampo occidentale, poiché queste ultimi non farebbero altro che collaborare con gli oligarchi russi, cosa che si tradurrebbe in un crollo ancora più veloce di quello dell’Europa occidentale di oggi.

Putin, un nuovo Pietro il Grande?

Il Patriarca ortodosso Cirillo aveva ragione nel sostenere che Putin potrebbe essere considerato, nel 2024, come il Pietro il Grande del ventunesimo secolo, a quattro condizioni:

● Sviluppare un riarmo molto intenso e la modernizzazione in corso dell’esercito russo;

● completare lo sviluppo e la diversificazione già iniziata da Medvedev dell’economia russa;

● continuare a combattere il tasso di denatalità russa, cosa di cui Putin è ben consapevole;

● far rientrare nell’orbita russa, cosa storicamente inesorabile a lungo termine, la Bielorussia e l’Ucraina, per creare un contrappeso umano con duecento milioni di persone, nel trattare con la Cina, l’Asia centrale e il Caucaso.

Il confronto attualmente in corso tra Putin e gli Stati Uniti può essere paragonato alla lotta del giovane zar Pietro il Grande contro Carlo XII, che con la battaglia di Poltava, l’8 luglio 1709, pose fine alla supremazia svedese sul Baltico. Pietro il Grande, mentre rafforzava e ammodernava l’esercito russo, non commise l’errore di dimenticare poi l’innovazione dell’economia e delle arti, cosa che ha dimostrato nel 1717, durante un viaggio in Europa. Pietro il Grande ancorò la Russia a una finestra sull’Europa, fondando San Pietroburgo. Putin, nativo di quella città, che parla tedesco, una ex spia del KGB a Dresda prima della caduta del muro di Berlino, ha una visione europeo-continentale e vuole avvicinarsi per motivi geopolitici a Francia e Germania. Maurice Druon non si sbagliava quando una volta ha visto Putin come il difensore europeo di un mondo multipolare, piuttosto che di un mondo che obbedisce allo sceriffo globale, e “uno dei nostri alleati più decisivi”. Per Putin, il futuro è europeo!

Ma la Russia guarda anche ad est e a sud, da cui possono provenire molti pericoli, la fine dell’intervento occidentale in Afghanistan non è l’ultimo di essi. Aldilà dei suoi sforzi demografici per raggiungere almeno i 130 milioni di persone e non cadere sotto ai 100 milioni nel 2050, l’equivalente della popolazione turca in quel momento, la Russia ha bisogno in futuro della Bielorussia e dell’Ucraina. Questi due paesi, uno dei quali è la sua culla religiosa, rappresentano un contributo umano di circa 60 milioni di abitanti, sufficienti a costituire una superpotenza di fronte alla Cina e all’Asia centrale. Se Putin, durante la sua presidenza, riuscirà in questa impresa, iniziando molto probabilmente dalla Bielorussia, potrà davvero essere paragonato a Pietro il Grande, altrimenti, non avrà un demerito e potrà essere paragonato almeno a De Gaulle, Churchill, Bismarck, Clemenceau e Richelieu, i grandi statisti che hanno avuto una visione storica, un coraggio e una continuità tanto necessaria ai nostri piccoli politici europei di oggi, atlantisti, liberisti, democratici, demagogici e dirittumanisti; e non sarebbe poi così male!

(1) Zbigniew Brzezinski, La Grande Scacchiera, Longanesi, 1997

* Marc Rousset: Economista, scrittore, autore di “La Nouvelle Europe Paris-Berlin-Moscou“.

FONTE: http://www.polemia.com/article.php?id=4644

Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://sitoaurora.altervista.org/home.htm
http://aurorasito.wordpress.com

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Viaggio al centro dell’Atlante di Mercatore

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Segnaliamo che al Museo di Palazzo Poggi, in Via Zamboni 33, Bologna, fino al 9 aprile 2012, sarà possibile non solo ammirare il volume originale del geografo fiammingo Gerardo Mercatore (1512 – 1594) Atlas, sive cosmographicae meditationes de fabrica mundi et fabricati figura (1630, decima edizione) concesso in deposito al Museo dal Dipartimento di Fisica ma, grazie a una originale tecnologia, appositamente sviluppata da ricercatori dell’Università di Bologna, il visitatore potrà esplorare con una modalità inedita e coinvolgente, alcune tra le più pregiate e curiose carte geografiche, immergendosi in un viaggio tra passato e futuro.

1630 – 2012: Viaggio al centro dell’Atlante di Gerardo Mercatore

Dal 9 marzo al 9 aprile: martedì – venerdì 10.00 – 13.00 / 14.00 – 16.00
Sabato, domenica e Pasquetta: 10.30 – 13.30 / 14.30 – 17.30

FONTE: http://www.museopalazzopoggi.unibo.it/89/44/dettaglio_news/115.html

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Ingresso di due prestigiosi geopolitici argentini nel Comitato Scientifico di “Eurasia”.

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Miguel Angel Barrios e Carlos A. Pereyra Mele, collaboratori di “Eurasia”, hanno accettato di entrare a far parte del Comitato Scientifico della rivista.

Miguel Angel Barrios (del quale “Eurasia” pubblica il saggio “Strategia e geopolitica dell’America Latina”) è consigliere della segreteria accademica del Centro de Estudios Estratégicos para la Defensa “Manuel Belgrano” (Ministero della Difesa della Repubblica Argentina), nonché direttore della Escuela de Polìticas Pùblicas, consigliere scientifico dell’Instituto de Estudios Estratégicos y Relaciones Internacionales (Cìrculo de Legisladores de la Naciòn Argentina).

Carlos A. Pereyra Mele, politologo argentino, è membro del Centro de Estudios Estratégicos Suramericanos. Ha pubblicato su “Eurasia”: Difesa nazionale e integrazione regionale (nr. 3/2007, pp. 101-106), La guerra infinita in America (nr. 4/2008, pp. 125-129). Altri suoi contributi sono presenti nel sito di “Eurasia”.

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Le elezioni politiche in Iran

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Lo scorso 2 marzo si sono svolte in Iran le elezioni parlamentari per eleggere 290 deputati del Majles (Parlamento), per un periodo di quattro anni. Questa è stata la nona tornata elettorale per le politiche, dalla Rivoluzione islamica del 1979. Il sistema parlamentare iraniano è di tipo monocamerale e tutte le norme approvate dal Parlamento sono soggette al controllo costituzionale del Consiglio dei Guardiani (Shoraie Negahban), una sorta di Corte costituzionale con sindacato preventivo. Nei sistemi costituzionali europei normalmente vi sono due Camere, una “bassa” e una “alta” e il controllo sulla legittimità costituzionale avviene dopo che la legge emanata dal potere legislativo diviene operativa (in Italia funziona esattamente in questo modo). L’unico sistema europeo che prevede in alcuni casi residuali un controllo di legittimità preventivo è quello francese.

Alle recenti elezioni iraniane hanno partecipato poco più di 3.000 candidati, sui circa 5.000 iscritti, visto che tutte le iscrizioni vengono vagliate da alcuni comitati elettorali provinciali e poi dal Consiglio dei Guardiani, per valutare alcune caratteristiche degli aspiranti deputati. Infatti, in base al Testo costituzionale iraniano, sono candidabili solo le persone che non abbiano precedenti penali e procedimenti pendenti, che riconoscano i valori della Costituzione e siano fedeli ad essa.

La situazione politica interna alla Repubblica islamica

Le elezioni di venerdì 2 marzo hanno sancito la vittoria schiacciante, per la terza volta consecutiva (le precedenti tornate elettorali del parlamento si erano svolte nel 2004 e nel 2008) della variegata formazione dei conservatori (forse sarebbe meglio chiamarli “tradizionalisti”). La differenza fondamentale però con gli altri anni è che all’interno dei conservatori si sono create coalizioni diverse con orientamenti antitetici. L’attuale confronto politico quindi, non è più tra conservatori e riformisti, confronto quest’ultimo in voga fino alle elezioni presidenziali del 2009 con la contesa tra Ahmadinejad (conservatore) e Musavi (riformista), ma all’interno dei conservatori. Possiamo individuare almeno quattro anime all’interno dei conservatori: 1- i sostenitori del Presidente Ahmadinejad. 2- Il cartello elettorale denominato “Fronte della Stabilità”, sostenitore della politica economica e della politica estera del governo, ma preoccupato del comportamento di alcuni collaboratori di Ahmadinejad, accusati di ostruzionismo nei confronti della Guida spirituale, l’Ayatollah Khamenei. 3- Il “Fronte Unito dei Tradizionalisti”, avversario del governo per ciò che riguarda le politiche economiche, sociali e culturali. 4- La lista denominata “La Voce del Popolo”, avversaria del governo in modo radicale, con posizioni molto vicine ai riformisti.

Alla fine è stato chiaro che nel prossimo Parlamento il gruppo parlamentare di maggioranza relativa, con circa il 40% dei seggi, sarà il “Fronte Unito”, vicino all’attuale Speaker, Ali Larijani. Sarebbe però sbagliato dire che il nuovo Parlamento sarà sicuramente in antitesi col governo, visto che un ruolo importante per le future alleanze lo giocheranno i candidati indipendenti, circa il 25% dei deputati neoeletti. Inoltre, tanto per complicare ulteriormente le cose, alcuni deputati eletti nel “Fronte Unito”, hanno posizioni meno radicali nel criticare il governo rispetto ad altri membri della coalizione. Gli scenari quindi sono molto variabili e potrebbero esserci delle sorprese nei ballottaggi che si terranno nelle prossime settimane; attualmente sono stati assegnati 225 seggi su 290.

Il messaggio internazionale delle elezioni iraniane

L’Iran è un Paese fondamentale per gli assetti vicinorientali e mondiali, visto che la regione in cui è collocato fornisce buona parte del petrolio del mondo. Con l’avvento della cosiddetta “Primavera araba” e i venti rivoluzionari nel mondo arabo, con la costante pressione occidentale sull’Iran per un cambio di regime che favorisca gli Usa, e con la costante minaccia di un intervento militare israeliano, le elezioni hanno assunto un ruolo fondamentale per garantire alla Repubblica islamica un sostegno diffuso nella popolazione iraniana. Infatti la tornata elettorale ha riscontrato una partecipazione del 65% degli aventi diritto; questo è stato un grande successo per la “democrazia islamica” in Iran e ha confermato che la grande maggioranza degli iraniani crede nei valori della Costituzione del 1979. Prima delle elezioni, i media in lingua persiana legati al governo americano ed inglese come VOA (Voice of America) PERSIAN e BBC PERSIAN hanno messo in scena una pesante campagna di boicottaggio delle elezioni, ma alla fine gli iraniani sono andati alle urne, stabilendo un primato di partecipazione rispetto alle elezioni americane, dove normalmente più della metà delle persone non va a votare, gettando così nel discredito la classe dirigente nordamericana.

In un discorso tenuto pochi giorni dopo il voto iraniano, il Presidente Obama ha detto che l’ipotesi di un intervento militare in Iran non è all’ordine del giorno, ammettendo quindi che intervenire in un Paese in cui vi è un regime politico stabile sarebbe una follia: non come in Iraq, dove l’avanzata dell’esercito americano fino a Baghdad avvenne quasi indisturbata, visto che dopo dodici anni d’embargo Saddam Hussein godeva di un appoggio popolare in netto calo, particolarmente nelle regioni meridionali e settentrionali del Paese. Ciò ovviamente non vuol dire che ormai non esiste più alcuna minaccia per l’Iran, ma solo che la principale arma di ‘distruzione di massa’ a disposizione di un regime è l’appoggio popolare, il consenso verso i valori fondamentali di un ordinamento politico e sociale, e non la “terribile” arma atomica, come invece la propaganda occidentale vorrebbe farci credere

NOTE
*Ali Reza Jalali è laureato in legge, si occupa dello studio della costituzione e della forma giuridica in vigore nella Repubblica Islamica dell’Iran.

 

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L’Ungheria tra l’Eurasia e l’Occidente

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Un paesaggio geografico segna il destino del popolo che lo abita. Un popolo che conquista un territorio e vi si insedia, accetta la legge di quel territorio, consapevole o no che esso ne sia. Si potrebbero fare parecchi esempi a questo proposito; ma, siccome qui ci interessa l’Ungheria, cercherò di delineare il profilo dello spazio geografico storicamente occupato dal popolo ungherese, perché esso ha influito in maniera decisiva sulla sorte storica di questo popolo.

Si tratta dello spazio che viene chiamato Bacino Pannonico (dal nome del popolo illirico che lo abitava nell’antichità) o Bacino dei Carpazi (dal nome della catena montuosa che lo delimita a nord e ad est). Racchiuso tra le Alpi, i Carpazi e i Balcani, il Bacino Pannonico è la più vasta e la più chiusa tra le quattro unità territoriali attraversate dal Danubio (le altre tre sono ad ovest lo spazio bavaro-svevo e quello della Bassa Austria e ad est quello valacco-bulgaro). Il Bacino Pannonico non ha un litorale marino: è una vasta pianura che configura un settore di cerchio delimitato da massicci montani. Sembra che tutto il suo peso, poggiando sulle coste adriatiche e sulla regione balcanica, protegga o minacci l’Europa ed il Mediterraneo.

In effetti il Bacino Pannonico rappresentò una minaccia tra la fine dell’età antica e la prima metà del Medioevo, nel periodo delle “invasioni barbariche”, come vengono chiamate in Italia, o “migrazioni di popoli” come le chiamano gli Ungheresi (népvandorlás, cfr. ted. Völkerwanderung). Goti, Gepidi, Unni, Avari e infine Ungari, in un primo momento fecero di questa fortezza naturale, collocata fra l’Oriente e l’Occidente, il punto di partenza delle loro scorrerie.

Gli Ungari erano un popolo ugrico, appartenente cioè al ramo orientale della compagine ugrofinnica (il ramo occidentale è quello finnico). A sua volta, la compagine ugrofinnica è affine al gruppo altaico, che comprende popoli turchi, mongoli e manciu-tungusi. Questo popolo ugrico, dopo essere vissuto nella regione compresa fra la Kama e gli Urali, circa duemila anni fa varcò la Kama e si stabilì press’a poco nell’attuale Bashkiria. Qui, tra la Volga, la Kama, la Belaja e l’Ural, gli Ungari convissero per qualche secolo coi Bulgari (che erano ancora un popolo turco) e da loro impararono a coltivare la terra e ad allevare il bestiame, trasformando così il proprio stile di vita di cacciatori e pastori. Lo stesso nome di Ungari, con cui questo popolo venne designato, deriva dal nome etnico dei Bulgari, onogur, che significa “dieci frecce” (on ek/eg), cioè dieci tribù.

Ungari e Bulgari turchi andarono poi a stabilirsi più a sudovest, fra l’Ural, il Caucaso e il Mar Nero, dove rimasero fin verso la fine del VII sec. d. C., quando i Bulgari si scissero in due rami, uno dei quali si diresse verso la penisola balcanica, dove ancora risiede. Venuti a contatto coi Cazari, un popolo turco che aveva esteso il proprio dominio fra il Mar Nero e il Caspio, gli Ungari vissero per un certo periodo in questa regione, in un contesto etnico eterogeneo, finché, sollecitati da nuove migrazioni, si spostarono nella Lebedia, fra il basso Don e il Mar d’Azov. Ma la pressione di un altro popolo turco, i Peceneghi, spinse ulteriormente verso ovest la compagine ungara, che venne così a trovarsi fra il Dnepr e il basso Danubio. Quando questa nuova sede degli Ungari fu attaccata da Peceneghi e Bulgari, gli Ungari furono costretti a proseguire la migrazione verso occidente.

Fu così che nell’895 circa 200.000 cavalieri ungari, accompagnati dalle loro famiglie, valicarono il passo carpatico di Verecke e dilagarono nella pianura solcata dal Tibisco e dal Danubio, abitata da tribù di varia appartenenza etnica.

Gli Ungari erano organizzati in dieci tribù, sette delle quali propriamente ugriche e tre cabarde (anche i Cabardi erano un popolo turco). Fra tutte, quella preminente era la tribù magyar, il cui capo, Árpád, guidava l’intera comunità. E fu questa tribù ad estendere a tutto il popolo ungaro la denominazione di magyar, che gli Ungheresi usano ancora oggi.

Infatti Magyarország (lett. “paese magiaro”) è oggi, in base alla nuova Costituzione ungherese, la denominazione ufficiale dell’Ungheria.
Questa decisione non è piaciuta agli agguerriti critici della nuova Costituzione ungherese. Il “Corriere della Sera”, ad esempio, ha scritto che la denominazione Magyarország (“Ungheria”) in luogo di Magyar Köztársaság (“Repubblica Ungherese”) richiama la “retorica di una grandeur nazionalistica che sembrava archiviata”.

* * *

Nell’895 ebbe dunque luogo quell’evento che gli Ungheresi chiamano “occupazione della patria” (honfoglalás) e che diede inizio a una nuova fase della loro storia.

Dicevo che il Bacino Pannonico rappresentò una minaccia per l’Europa dell’epoca. Nella prima metà del secolo successivo, infatti, gli Ungari intrapresero decine di spedizioni in varie parti d’Europa. Da Bisanzio ai Pirenei, gli Ungari seminavano il terrore, devastavano le campagne, espugnavano le città meno difese, catturavano bottino e prigionieri. “Nunc te rogamus, licet servi pessimi, – ab Hungarorum nos defendas jaculis“: così la gente dell’Emilia pregava il Cielo affinché la proteggesse dalle frecce dei cavalieri ungari. Identificati con gli Unni, gli Ungari erano visti come un secondo “flagello di Dio”; chi li diceva figli di diavoli e di streghe àvare, chi riconosceva in loro le genti di Gog e di Magog.

Con Enrico l’Uccellatore comincia però la riscossa dell’Europa cristiana contro le incursioni ungare. Il sovrano sassone, che in un primo tempo era stato costretto a versare il tributo agli Ungari per evitare i loro saccheggi, nel 933 li sconfigge in una battaglia campale. Nel 955 suo figlio Ottone I sbaraglia di nuovo nel Lechsfeld l’orda ungara che aveva assalito Augusta (Augsburg). In seguito alla sconfitta, i capi degli Ungari avvertono la necessità di cambiare rotta: occorre stabilire rapporti di buon vicinato con il Sacro Romano Impero, rinunciando definitivamente al seminomadismo ed alle incursioni e insediandosi stabilmente nel bacino carpatico-danubiano.

Per compiere questa svolta, gli Ungari devono legittimarsi, abbandonando la religione dei padri (una forma di sciamanesimo affine a quello dei popoli finnici e prototurchi) e adottando la religione cristiana. Il principe Taksony chiede alla Santa Sede di inviare un vescovo tra gli Ungari; il suo successore Géza si fa battezzare; il figlio di Géza, Vajk, assume il nome cristiano di Stefano (István), nell’anno 1000 riceve la corona d’Ungheria da papa Silvestro II e prosegue decisamente nella conversione delle tribù ungare.

I barbari predatori diventano le sentinelle dell’Europa cristiana sul confine orientale. Se il limes dell’Impero Romano era segnato ad est dal corso del Danubio, dopo il 1000 il limes orientale dell’Europa medioevale è rappresentato dal regno d’Ungheria.

* * *

In seguito, tre imperi si sarebbero affrontati per controllare lo spazio solcato dal Danubio: l’impero absburgico, l’impero ottomano e quello russo, ciascuno seguendo una diversa direzione di marcia. Gli Austriaci discesero il fiume, i Turchi lo risalirono, l’Armata Rossa lo attraversò.

Nell’impero absburgico, che controllò buona parte dello spazio danubiano fino alla prima guerra mondiale, il centro di gravità non era occupato dai Tedeschi (fatta eccezione per le colonie sveve disseminate qua e là), ma dalla massa compatta degli Ungheresi. L’Ungheria costituiva il nerbo dell’impero: nel centro geometrico della Monarchia absburgica, al centro del bacino danubiano, c’erano Buda e Pest, mentre Vienna si trovava alla periferia, vicino al confine occidentale. Periferici erano anche gli altri territori: Transilvania, Bosnia, Carinzia, Stiria, Slovacchia, Boemia, Galizia. Sulla carta geografica, la Monarchia danubiana appariva come un’Ungheria prolungata verso il nord e verso l’ovest.

È questo lo sfondo geopolitico del Compromesso (Ausgleich, Kiegyezés), la riforma costituzionale del 1867, che Vienna si vide costretta ad adottare in seguito alla sconfitta subita nella guerra austro-prussiana dell’anno precedente, riconoscendo al blocco compatto degli Ungheresi un peso decisivo. In virtù del Compromesso, l’Impero d’Austria diventava una “monarchia austro-ungarica”: una duplice monarchia che, sotto un identico sovrano (Imperatore d’Austria e Re d’Ungheria), si articolava in due regni distinti. Se i ministeri competenti per la politica estera, la politica economica e quella militare erano in comune, accanto all’imperial-regio esercito esistevano anche un esercito nazionale austriaco (Landwehr) e un esercito nazionale ungherese (Honvéd), mentre le questioni finanziarie e quelle commerciali erano regolate da accordi decennali rinnovabili.

Gli Ungheresi non erano solo il popolo centrale del bacino danubiano, ma erano anche l’unico che apparteneva soltanto ad esso, l’unico la cui lingua non era parlata da nessun’altra parte. La patria degli Ungheresi (come d’altronde quella dei Cechi, degli Slovacchi, degli Sloveni e dei Croati) si trovava tutta quanta entro i confini della Monarchia absburgica, mentre altri popoli (i Tedeschi, i Serbi, i Romeni, gli Ucraini, i Polacchi, gl’Italiani) erano insediati in parte entro i confini absburgici e in parte fuori.

Non è corretto formulare delle ipotesi circa sviluppi storici che non si sono verificati; tuttavia si è inevitabilmente tentati di dire che l’Austria-Ungheria sarebbe diventata una Grande Ungheria, se la prima guerra mondiale non avesse posto fine all’esistenza dell’impero, riducendo inoltre l’Ungheria ai minimi termini.

Infatti i confini dell’Ungheria postbellica, stabiliti nel novembre-dicembre 1918, non comprendevano: 1) la città di Temesvár (Timişoara), dove fu proclamata la Repubblica del Banato; 2) parte della Transilvania, che fu annessa al Regno di Romania; 3) la Slovacchia, che diventò parte del nuovo Stato cecoslovacco; 4) la Croazia, la Slavonia e la Voivodina, che furono unite al neonato Regno dei Serbi, Croati e Sloveni; 5) la città di Fiume, che, oggetto di dispute territoriali, fu occupata prima da truppe anglo-francesi e subito dopo dai legionari di D’Annunzio, per essere poi annessa al Regno d’Italia; 6) le città di Pécs, Mohács, Baja e Szigetvár, che furono poste sotto amministrazione provvisoria serbo-croata (ma sarebbero state poi restituite all’Ungheria).

I confini definitivi dello Stato ungherese, fissati dal Trattato del Trianon il 4 giugno 1920, privavano l’Ungheria di altri territori: 1) il resto della Transilvania, che fu assegnato anch’esso alla Romania; 2) la Rutenia subcarpatica, che divenne parte della Cecoslovacchia, 3) buona parte del Burgenland, che fu assegnato all’Austria.

In tal modo la superficie territoriale dell’Ungheria venne ridotta di due terzi. Il nuovo staterello non ebbe più accesso al mare, che il Regno d’Ungheria aveva mantenuto, attraverso i territori della Croazia, per oltre 800 anni. Come si disse all’epoca con un certo sarcasmo, l’Ungheria era diventata l’unico paese al mondo che confinasse con se stesso da ogni lato. A questa boutade se ne aggiungeva un’altra: l’Ungheria, oltre ad essere una monarchia senza re, era un paese senza mare guidato da un ammiraglio.

La popolazione della piccola Ungheria postbellica ammontava a 7 milioni di abitanti: 12 milioni in meno rispetto al Regno d’Ungheria, che ne contava 19 milioni.

La popolazione delle province che l’Ungheria dovette cedere ad altri Stati era in maggioranza non ungherese; in certi casi, però, essa includeva significative minoranze ungheresi, mentre in alcuni territori (Slovacchia meridionale, alcune parti della Transilvania e della Voivodina) la maggioranza era ungherese. Riportiamo i dati che il censimento del 1910 aveva riportato in relazione alla popolazione ungherese delle province alienate: Transilvania 1.662.000 (32%), Slovacchia 885.000 (30%), Rutenia subcarpatica 183.000 (30%), Voivodina 420.000 (28%), Burgenland 26.200 (9%), Croazia 121.000 (3,5%), Slovenia 20.800 (1,6%). Per effetto del Trattato del Trianon la popolazione ungherese diminuì in tutte queste regioni; tuttavia notevoli minoranze ungheresi vi risiedono ancora oggi, specialmente in Romania, Slovacchia, Serbia ed Ucraina.

* * *

Non è necessario soffermarsi sugli effetti devastanti prodotti fino ai giorni nostri dai trattati di pace che i vincitori della prima guerra mondiale imposero alle potenze sconfitte, in Europa e nel Vicino Oriente, creando situazioni da cui sono scaturiti diversi conflitti.

Per quanto riguarda l’Ungheria, la richiesta di revisione del Trattato del Trianon trovò sostegno presso quegli Stati che erano stati anch’essi in vario modo penalizzati dai trattati di pace, in primis la Germania e l’Italia. Fu così che l’Ungheria aderì al Patto Anticomintern e poi, il 20 novembre 1940, al Patto Tripartito. Dall’avvicinamento a Roma e a Berlino essa raccolse i frutti il 30 agosto 1940, quando i ministri del Reich e dell’Italia, Joachim von Ribbentrop e Galeazzo Ciano, emisero a Vienne una decisione arbitrale che restituiva a Budapest una parte dei territori assegnati alla Romania dal Trattato del Trianon: la Transilvania settentrionale, comprese Oradea, Cluj e la regione dei Székely.

In seguito alla vittoria delle potenze alleate, l’Ungheria uscì dal conflitto con gli stessi confini stabiliti dal Trattato del Trianon, rinsaldati dal controllo sovietico e per quarant’anni fece parte dello spazio geopolitico egemonizzato dall’URSS.

Ma fu proprio l’Ungheria, il 23 agosto 1989, che iniziò a smantellare la Cortina di Ferro, favorendo l’esodo di migliaia di Tedeschi della DDR. Con la caduta del Muro di Berlino e della Cortina di Ferro, con lo scioglimento del Patto di Varsavia, la dissoluzione dell’URSS e il rovesciamento del sistema comunista, l’Ungheria si orientò verso i modelli economici e politici dell’Europa occidentale, cosicché nel 1989 la Repubblica Popolare Ungherese cessò di esistere.

Nel maggio 1995 si tenne a Budapest l’assemblea parlamentare della NATO. L’Ungheria non era ancora un paese membro, però aveva aderito al “Partenariato per la Pace” creato dalla NATO nel 1994 ed aveva dato l’assenso all’allestimento di una base militare statunitense a Taszár, nelle vicinanze della frontiera bosniaca. Il 12 marzo 1999 l’Ungheria entrò ufficialmente a far parte dell’organizzazione militare atlantica e, in quanto tale, stanziò in Iraq 300 militari, ufficialmente non impegnati in operazioni di combattimento.

Al vertice dell’Unione Europea svoltosi a Copenaghen il 13 dicembre 2002 fu deciso che dal 1 maggio 2004 l’Ungheria (assieme ad altri nove Stati) sarebbe entrata a far parte dell’Unione. La decisione venne confermata il 12 aprile 2003 con un referendum al quale partecipò il 45% degli aventi diritto; l’84% dei votanti si espresse a favore dell’ingresso nella UE.

Aderendo all’Unione Europea, Budapest pensava che sarebbero stati risolti i problemi inerenti alle frontiere di Stato istituite dal Trattato del Trianon, frontiere che separano gli Ungheresi d’Ungheria dai connazionali che vivono nei paesi confinanti. Non solo, ma il governo ungherese, al fine distabilizzare la regione, si adoperò per avvicinare all’Unione Europea paesi quali la Croazia, la Serbia e l’Ucraina.

* * *

Lo smembramento dell’Ungheria avvenuto col Trattato del Trianon è un motivo presente anche nella nuova Carta costituzionale ungherese, che nel Preambolo dichiara: “Promettiamo di custodire l’unità spirituale e morale della nostra Nazione, andata in pezzi (részekre szakadt) nelle tempeste del secolo scorso”. Su questo punto della Costituzione si fonda l’estensione della cittadinanza ungherese, con relativo diritto di voto, ai connazionali che sono cittadini dei paesi confinanti.

Questa decisione, che alcuni temono possa dar luogo a tensioni con la Slovacchia e con la Romania, ha costituito anch’essa l’oggetto delle critiche rivolte alla nuova Carta ungherese, la quale, pur essendo stata approvata dai due terzi del Parlamento di Budapest, è stata bollata come antidemocratica e liber i del sistema ideologico politico occidentale, tra i quali la segretaria di Stato degli USA.

Il primo punto che è stato contestato è il riferimento a Dio ed alla religione, per cui si è addirittura parlato di una ispirazione “clericale” e di un progetto “teocratico” (ignorando che il principale esponente di tale presunto progetto, il primo ministro Viktor Orbán, è di confessione calvinista…). E questo perché il testo costituzionale si apre col verso iniziale dell’Inno di Ferenc Kölcsey (1790-1838): “Dio, benedici l’Ungherese!” (Isten, áldd meg a Magyart), la poesia che, musicata da Ferenc Erkel, è diventata inno nazionale. Gli Ungheresi potrebbero replicare che anche l’inno nazionale italiano, evocando una Vittoria poeticamente personificata, dice che “schiava di Roma – Iddio la creò”. D’altronde non risulta che i critici del presunto carattere clericale della Costituzione ungherese, a cominciare dalla signora Clinton, abbiano rivolto la stessa accusa agli Stati Uniti, dove spesso il presidente termina i suoi discorsi con “God bless America!” e dove le banconote recano la scritta “In God we trust“.

Ma non c’è solo il verso dell’Inno di Kölcsey. Nel Preambolo, intitolato Professione di fede nazionale, si legge: “Siamo fieri del fatto che mille anni fa il nostro re Santo Stefano abbia collocato lo Stato ungherese su solide fondamenta ed abbia reso la nostra patria parte dell’Europa cristiana”. E più avanti: “Riconosciamo il ruolo di conservazione della nazione svolto dal cristianesimo”. Tali affermazioni sono state giudicate contrarie ai valori di laicità ai quali si ispira l’Unione Europea e sono sembrate discriminatorie nei confronti dei fedeli di altre religioni. Ma ciò è smentito dal fatto che lo stesso testo costituzionale riconosce il carattere multiconfessionale dell’Ungheria, poiché dichiara: “Rispettiamo le diverse tradizioni religiose del nostro paese”.
A questo proposito vale la pena di ricordare che la nuova legge ungherese sulle religioni garantisce il riconoscimento ufficiale dello Stato a 14 comunità religiose: più di quelle con cui la Repubblica Italiana ha stipulato un concordato o un’intesa. Bisogna anche aggiungere che, prima che venisse emanata questa legge, le organizzazioni religiose, parareligiose e pseudoreligiose sovvenzionate col denaro pubblico erano ben 300. Era sufficiente raccogliere un centinaio di firme e chiunque poteva aspirare ad incassare, a nome della propria “chiesa”, l’uno per cento del reddito dichiarato dai contribuenti. Contrariamente a quanto l’informazione dirittumanista vorrebbe far credere, tutte queste organizzazioni non sono state interdette, ma sono diventate semplici associazioni private.

Un altro articolo costituzionale che ha provocato notevole sconcerto fra i sostenitori dei “diritti umani” è l’articolo L (prima parte della Carta), che definisce il matrimonio come “comunione di vita” (életközosség) tra uomo e donna”. In un rapporto del 31 marzo 2011 Amnesty International giudica particolarmente problematico il fatto che la nuova Costituzione non interdica la discriminazione fondata sugli orientamenti sessuali. Al Parlamento europeo l’Alleanza dei liberali e democratici per l’Europa (che riunisce varie formazioni politiche, tra cui l’Italia dei Valori) ha protestato contro questo articolo, che discrimina le coppie omosessuali “sulla base di specifici valori come la fede, la lealtà, la preminenza della comunità e della nazione sull’individuo”.

Nella seconda parte del testo costituzionale, che concerne diritti e doveri dei cittadini, ha suscitato analoga riprovazione l’articolo II, il quale afferma che la vita umana è protetta fin dal momento in cui viene concepita. A chi sostiene che tale articolo viola i valori europei, bisognerebbe obiettare che esso, al contrario, è perfettamente conforme al principio del diritto romano secondo cui “infans conceptus pro nato habetur” (il bambino concepito è considerato come nato).

A parte le altre accuse che gli alfieri dei “diritti umani” rivolgono alla nuova Costituzione, quest’ultima tocca i vertici dell’eterodossia laddove rimanda all’attività del legislatore l’attuazione di una disposizione concernente la Banca Centrale Nazionale, ispirando una serie di riforme costituzionali che mirano a porre l’attività creditizia al servizio della comunità, e non degli speculatori.

È dunque in atto uno scontro che oppone il governo e il popolo ungherese al potere bancario occidentale, nonché alle forze ideologiche e politiche da esso sostenute.

Nella sua storia passata l’Ungheria si è trovata tra l’Oriente, da cui il suo popolo era provenuto, e l’Occidente europeo nel quale si era venuta ad inserire. Ha dovuto scegliere – e a volte sono stati altri a scegliere per lei – tra le steppe e la pianura danubiana, tra lo sciamanesimo e il cristianesimo, tra Bisanzio e Roma, tra l’impero ottomano e quello absburgico, tra il Patto di Varsavia e l’Alleanza Atlantica.

Oggi il problema di una scelta non si pone, quanto meno fino a questo momento. Tuttavia, mentre l’Occidente mette sotto accusa l’Ungheria suscitando nel suo popolo l’euroscetticismo o addirittura l’eurofobia, ad est dell’Ungheria è entrato ufficialmente in vigore, il primo gennaio di quest’anno, l’accordo siglato da Russia, Bielorussia e Kazakistan per l’istituzione di un’unione doganale concepita come nucleo di un’Unione Eurasiatica, alla quale dovrebbero successivamene aderire Kirghizistan, Tagikistan, Uzbekistan, Armenia, Moldova ed Ucraina.

Non è dato sapere che cosa intendesse Viktor Orbán dicendo che “c’è vita anche fuori dall’Unione Europea” e non è possibile azzardare interpretazioni né pronostici, anche se il “Washington Post” ha paventato il rischio che l’Ungheria possa diventare un avamposto della Russia.

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L’Ungheria nel mirino Occidentale

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Organi di stampa ungheresi riferiscono che a metà febbraio, nel corso di una riunione del Fidesz (il partito ungherese di governo), il primo ministro Viktor Orbán avrebbe detto che in Ungheria è stato sventato un tentativo di colpo di Stato per rovesciare il governo in carica, tentativo sostenuto da diplomatici stranieri e da organi di stampa occidentali.

Il quotidiano “Magyar Nemzet” scrive che nel corso della medesima riunione il primo ministro avrebbe accusato in particolare la CNN. Secondo “Népszabadság”, Orbán avrebbe dichiarato che i servizi della CNN sull’Ungheria hanno cercato di far credere ad un calo della sua popolarità. Orbán avrebbe anche sostenuto che i diplomatici stranieri, al fine di indebolire la sua autorità, si sono serviti dei loro legami coi membri del governo precedente.

Che da parte occidentale si stia tramando per dare il via ad una “rivoluzione colorata” in Ungheria, era chiaro da un pezzo.

Un’ulteriore conferma di ciò viene fornita da un recente servizio apparso sul “Washington Post”. Gli autori (Mark Palmer, Miklos Haraszti e Charles Gati) sostengono la necessità di far rinascere “Free Europe”, l’emittente di propaganda americana che nel periodo comunista trasmetteva nelle varie lingue dei paesi d’Oltrecortina e che continuò a trasmettere in ungherese fino al 1993. La ripresa delle emissioni radio di “Free Europe”, secondo il giornale statunitense, “potrebbe costituire un passo decisivo per promuovere valori corretti e giusti in Ungheria e per proteggere gl’investimenti di democrazia nell’Europa centrale ed orientale”.

Sono tre, spiega il “Washington Post”, i motivi che rendono necessaria una ripresa delle attività di “Radio Europa Libera”.

Il primo è che l’Ungheria, sotto il regime autoritario e populista di Orbán, non dispone più di una stampa libera e indipendente.
Il secondo è che esiste il pericolo di un contagio, vale a dire di una imitazione del modello ungherese da parte degli Stati vicini, in particolare la Romania e la Slovacchia.
Il terzo motivo è che non bisogna permettere che l’Ungheria diventi un avamposto della Russia. “Considerando la somiglianza dei recenti attacchi ungheresi e russi contro gli Stati Uniti d’America, – si legge nel giornale statunitense – l’Ungheria potrebbe diventare il primo avamposto ideologico della dittatura costituzionale di Putin. Washington dovrebbe sostenere i ripetuti avvertimenti dell’Unione Europea concernenti il deficit democratico dell’Ungheria e intraprendere certe misure per prevenire la crescita dell’autoritarismo nell’Europa centrale, prima che questa tendenza si imponga”.

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La lunga notte della credibilità italiana

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I due fatti ben noti che hanno vivacizzato le pagine “estero” dei quotidiani italiani di questi giorni, il ridicolo blitz inglese in Nigeria – che è costato la vita ad un ostaggio italiano- e l’arresto di due militari italiani in India – accusati di aver compiuto omicidio in acque internazionali- evidenziano come il peso internazionale dell’Italia sia oggi ai minimi storici.

Con la fine del governo Berlusconi in molti si erano illusi: impossibile raggiungere quella sensazione di carnevale permanente che sembrava pervadere la reputazione dell’Italia all’estero in quei giorni, se non altro allegri; a quanto pare non è così e l’influenza, nonché il credito, che la nostra diplomazia (e con essa i nostri interessi) ha fuori dai confini della penisola è sotto lo zero. Nessuna tutela per i militari accusati di illegalità (forse legittimamente), ma in acque internazionali non di competenza indiana; nessun coordinamento (e nemmeno un messaggio) prima della grottesca azione britannica nel tentativo di liberare gli ostaggi. Il governo Monti rappresenta probabilmente il grado più basso della considerazione che ci viene accordata nel mondo. E questo per una serie di motivi, cronici e congiunturali.

Le radici che determinano la leggerezza internazionale del nostro Stato giungono da lontano: oltre cento basi militari NATO/USA presenti sul nostro territorio hanno negli anni tolto ogni velleità sovrana ai “distratti” ministeri italiani; se furono istallate all’epoca della guerra fredda, durante la quale l’Italia riuscì anche a ritagliarsi un piccolo ruolo di avanguardia sulla cortina di ferro, avendo in cambio un ruolo più deciso nel Mediterraneo, con la fine di quella e i confini del “grande gioco” eurasiatico spostati più a est, l’Italia rimane semplicemente periferia dell’alleanza atlantica: non periferia geografica, ma geopolitica, con la funzione di “granaio” (vedere il caso FIAT) per il centro del sistema di alleanza.

A queste motivazioni permanenti di debolezza, comuni a quasi tutta Europa (le basi sono diffuse ovunque e ospitano anche le proibite armi atomiche [1]) dobbiamo inoltre sommare le questioni congiunturali che fanno dell’Italia di oggi un attore internazionale di scarsissimo impatto.
Il compito dell’esecutivo Monti di attuare riforme e politiche richieste dall’esterno è infatti un ulteriore elemento di indebolimento della voce e degli interessi italiani. Una sfilza di scelte, fatte da un governo non legittimato dalla sovranità popolare, che rispecchiano volontà estranee al tessuto sociale nazionale, non possono non rovesciarsi sulla poca sovranità nazionale rimasta, minandola alla base.

Proprio in questi giorni attraverso decreto il governo ha accontentato le richieste delle istituzioni UE togliendo la “golden share” (praticamente il controllo statale) in ambito di telecomunicazioni, energia e trasporti. In questo modo apre il mercato a grandi corporazioni basate in Europa che, se pur non agiranno nell’immediato causa la crisi economica e la scarsa liquidità, presto assalteranno aziende che sino ad ora erano considerate centrali per i settori strategici da difendere. E a ragione: questa aria di smobilitazione è proprio ciò che crea il vulnus di credibilità, colpendo nel peso e nella proiezione internazionale italiana e mediterranea, come abbiamo potuto pure appurare a causa del trattamento riservateci dalle agenzie di rating (agenzie private, statunitensi).

La mancanza di sovranità popolare interna (che sarebbe addirittura garantita dalla Costituzione) va in questo modo ad influire anche sulla sovranità nazionale esterna: se non si proteggono i settori strategici, se ci si adegua ai diktat esterni (operazione inevitabile se non ci si crea collegamenti “sovrani” con Paesi emergenti e/o vicini), l’influenza e la voce in capitolo dei nostri diplomatici e rappresentanti diminuisce sempre di più. Per assurdo, probabilmente, aveva più peso a livello internazionale il governo Berlusconi, dati i legami stretti (a quanto pare e purtroppo soprattutto a livello personale, quindi con pochi vantaggi a lungo termine per il Paese) con la Russia di Putin, come ci dimostrano le allarmate opinioni degli analisti governativi statunitensi (questione energetica e rapporti Eni-Gazprom).

Troncati quei rapporti, per accontentare il centro del nostro sistema di alleanze (Usa) e i satelliti più vicini (Gran Bretagna), ci troviamo di nuovo a fari spenti nella notte della sovranità italiana. L’elaborazione di una strategia di lungo periodo, che abbia come centro d’interesse le prerogative dell’Italia e il Mediterraneo si rende urgente e necessaria: lo studio e l’approfondimento della geopolitica nel nostro Paese può essere quindi di fondamentale importanza per illuminare il nostro futuro.

 

*Matteo Pistilli è redattore di Eurasia, rivista di studi geopolitici.

 

Note:

1]In cinque chiedono il ritiro delle armi atomiche Usa dal proprio territorio,  Matteo Pistilli, eurasia-rivista.org: http://www.eurasia-rivista.org/in-cinque-chiedono-il-ritiro-delle-armi-atomiche-usa-dal-proprio-territorio/3328/

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“Iran 2012. L’imperialismo verso la prossima guerra? Scenari, cronache, retroscena” : foto e video

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Si è svolto sabato 3 Marzo, a Brescia, davanti ad un folto pubblico, il seminario di Eurasia: “Iran 2012. L’imperialismo verso la prossima guerra? Scenari, cronache, retroscena“. Sono intervenuti: Simone Santini (autore del libro “Iran 2012. L’imperialismo verso la prossima guerra? Scenari, cronache, retroscena” Edizioni all’insegna del Veltro, 2012), Enrico Galoppini (redattore della rivista “Eurasia”), Jafar Rada (membro dell’Associazione Islamica Imam Mahdi), Claudio Mutti (Direttore della rivista “Eurasia”).

Qui di seguito riportiamo alcune foto e i link alle registrazioni audiovideo disponibili sul nostro canale youtube.


 

 
 

Prima parte
 

Seconda parte
 

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Ancora nessuna apocalisse

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Israel Shamir, CounterPunch, 10 Marzo 2012

L’apocalisse prevista non è venuta per passare. Le elezioni presidenziali in Russia hanno fatto il corso, Putin è stato regolarmente eletto e, con grande stupore dell’opposizione, le folle miliardarie che chiedono il sangue del tiranno, non si sono materializzate. Solo circa 15.000 manifestanti riuniti nel centro di Mosca e dispersi pacificamente nel giro di due ore. Solo un centinaio di attivisti “hardcore” sono risoluti nel “voler rimanere fino a quando Putin non se ne andrà”, vicino alla fontana cittadina ghiacciata. Essi sono stati arrestati, accusati e rilasciati. Che flop!

Un ispirato portavoce dei “bianchi”, una rimpatriata da New York, Masha Gessen, auto-descrittasi “lesbica ebrea, nemica giurata del regime di Putin”, un blogger del New York Times, “estremamente influente”, secondo Newsweek, che ha appena pubblicato un libro con Riverhead, profetizzando la rapida caduta di Putin, prevedendo (o chiamando per) che 200.000 russi inquietati abbatteranno le mura del Cremlino e laveranno con il sangue le strade, il 5 marzo. Raramente una visione ha fallito così profondamente.

L’ultima manifestazione ha avuto i suoi momenti divertenti. I radicali si sono presentati con slogan abbastanza osceni contro Putin e il suo elettorato. Hanno fischiato quasi tutti, incluso l’oligarca miliardario Prokhorov che ha cercato la sua fortuna con loro. Era piuttosto freddo, – 6° C, e la chiamata di Udaltsov e Navalny a restare è stata accolta con visibile incredulità. Navalny sembrava estremamente infelice, parlava delle necessità di costruire un movimento partendo da zero. La polizia si è comportata molto bene, anche i partecipanti hanno lodato il suo atteggiamento educato e rispettoso. I poliziotti statunitensi potrebbero trarre lezione dalla polizia anti-sommossa di Mosca su come restare calmi.

Finché non è accaduto, nessuno era sicuro del risultato. I leader dell’opposizione, ho chiesto loro in privato, mi hanno detto che non sapevano nulla; il governo non era sicuro e ha portato migliaia di soldati e poliziotto anti-sommossa, minacciosamente allocati nei cortili, rimanendo felicemente in disparte. Il municipio ha acconsentito tutte le manifestazioni richieste, al momento e nel luogo richiesto; non vi sono stati problemi logistici, la posizione del principale manifestazione dell’opposizione era in piazza Pushkin, l’equivalente moscovita di Times Square a New York. Tutto inutile: la gente non è venuta.

Si erano calmati con il voto. Circa 40.000 osservatori, provenienti da ogni ceto sociale, erano di stanza presso gli stand, c’erano telecamere web di controllo in ogni angolo vicino alle cabine per possibili brogli. Gli osservatori, di mentalità relativamente aperta, hanno avuto la possibilità di vedere che in elezioni trasparenti la gente vota per Putin. Non una stragrande maggioranza (64 per cento non è un tipo nord-coreano di risultato), ma convincente. Alcuni blogger liberali hanno avuto un ripensamento e, singhiozzando, hanno ammesso di aver assistito a elezioni eque e sentito la “vox populi”. Per questo motivo i richiami di Navalny, Yashin, Udaltsov e altri leader “bianchi”, per dichiarare “illegittimo” il voto, sono cadute nel vuoto.

Solo alcuni attivisti “hardcore” hanno continuato a sostenere che il voto è stato fraudolento; altri “bianchi” si sono lamentati del fatto che dovranno condividere questo pianeta con una tale marmaglia. Il vice-direttore della maggiore emittente “bianca”, Echo Moskvy, Vladimir Varfolomeev, ha scritto nel suo blog che “la base sociale del regime di Putin, 40 a 50 milioni di russi, deve essere eliminata”, per far vincere la democrazia. Questa osservazione è stata ampiamente interpretata come un invito al genocidio. Altri “bianchi” hanno spregiativamente definito l’elettorato di Putin come “spratti” e con altri termini “affettuosi”; uno o due hanno dichiarato la loro intenzione di emigrare in Israele. Hanno in programma più manifestazioni, ma la sensazione è che la “bolla arancione” sia scoppiata.

Gli attivisti hanno il cuore spezzato, le loro aspettative frantumate. La loro causa, quella di elezioni eque, è morta. La demonizzazione di Putin non ha funzionato, al contrario, ha spinto molti russi testardi a tornare nell’ovile. Ora cercano una nuova causa, e sembra che abbiano scelto lo scontro con la Chiesa. Dopo il fallimento, la loro prima azione è stata a sostegno di quattro punk-rockers che si sono resi sgradevoli in una cattedrale di Mosca. Questo probabilmente non attirerà larghe masse, dato che i Russi sono molto devoti alla loro Chiesa nazionale.

I comunisti sono andati piuttosto bene, ma le loro tattiche all’indomani delle elezioni erano confuse e deboli. Zjuganov ha scelto di non riconoscere il risultato il risultato e di non congratularsi con Putin; il Partito ha organizzato un raduno senza mobilitare i suoi quadri e si è rivelato un flop, dato che i comunisti ordinari non hanno compreso il messaggio. Probabilmente una nuova persona alla guida del partito, al posto dello stanco Zjuganov, sarà in grado di cambiare le cose in tempo per le prossime elezioni.

L’analisi dei risultati delle elezioni dimostra che Mosca ha votato in modo diverso dal resto del paese. La disparità sociale della Russia si è tradotta, molto ordinatamente, in numeri elettorali. Altrove, il secondo posto è stato preso dal rivale comunista Gennadij Zjuganov (18 per cento); a Mosca, i comunisti hanno ceduto in favore dell’oligarca “bon-vivant”, Mikhail Prokhorov, che ha ricevuto un robusto 20 per cento, rispetto al 7 per cento generale.

Ancora più rivelatori sono stati i risultati in diversi distretti elettorali: i quartieri di Mosca più benestanti hanno votato generosamente per Prokhorov, nelle aree migliori e costose ha ottenuto il 40 per cento dei voti. Prokhorov e i suoi hanno chiesto un’agenda neoliberista, meno imposte per le imprese, ore di lavoro più lunghe, lo smantellamento dei resti di protezione sociale, compreso il riscaldamento centralizzato che rende le case russe più calde in inverno. Naturalmente non poteva sperare di conquistare il cuore del russo medio, ma i benestanti hanno votato per lui, anche se hanno fatto le loro fortune sotto Putin.

Putin ha portato questo risultato su di sé: ha permesso che Mosca diventasse un vortice di flussi di denaro. Più denaro arriva e rimane a Mosca più che nel resto della Russia. Una volta Mosca aveva una grande classe operaia, molte fabbriche, buone condizioni per i lavoratori, lavoratori che sono stati il pilastro del regime sovietico. Ma negli ultimi 20 anni Mosca è stata deindustrializzata, fabbriche chiuse, la classe operaia si è ridotta, mentre i locali fanno una strage, affittando i loro appartamenti forniti dallo Stato.

Il risultato delle elezioni a Mosca avrebbe potuto anche essere peggiore per Putin, se non fosse stato per il trasporto dei voti provenienti dai comuni industriali. Gli elettori trasportati erano anche cittadini della Russia e il trasporto non ha modificato i risultati complessivi; ha cambiato i risultati per i distretti separati, oscurando così il pericoloso divario tra Mosca e il resto del paese. In alcune zone costose di Mosca, dove poco o nulla voto trasportato ha avuto luogo, Prokhorov ha quasi raccolto tanti voti quanti Putin. A Londra e a Tel Aviv, dove molti cittadini russi hanno votato, Prokhorov ha vinto a mani basse e Putin era assente.

Se Putin vuole restare al potere, deve fare qualcosa per Mosca. La disparità tra Mosca e il paese deve essere uguagliata. La capitale e i suoi abitanti sono odiati dalla gente di campagna, e questo sentimento potrebbe consentire a Putin di spostare le risorse da questa città troppo ricca.

Il problema più grande è con gli oligarchi. Riuscirà a cercare di inserire la loro agenda? Si tratta di una possibilità concreta. Anche se al momento dell’ondata delle manifestazioni anti-Putin, ha fatto appello al patriottismo di attivisti e intellettuali, e lo hanno salvato con il miracolo al Monte Poklonnaya, sono ben lungi dall’esser certi che non se li dimenticherà nel momento della vittoria. Idem per Rogozin, l’ardente nazionalista, che è stato riportato a casa dall’esilio onorario a Bruxelles. La gente si chiede se Putin lo terrà.

Tuttavia, c’è una possibilità che lui farà ciò che gli oligarchi temono, vale a dire affrontare la delocalizzazione e gli affari disonesti dei super-ricchi. John Helmer, un vecchio giornalista a Mosca per l’Asia Times, ha scritto con entusiasmo della direttiva di Putin VP-P13-9308 del 28 dicembre 2011, disponibile qui; l’ha definita “l’assassina degli oligarchi”. Putin ha chiesto agli amministratori delegati e ai dirigenti dei giganti statali di rivelarsi, nelle parole di Helmer: “Le reti di affiliazione tra funzionari e beneficiari; mogli, figli, e altri membri della famiglia o per interposta persona, che sono stati posti in affidamento occultato e che ricoprono posizioni di cui si sono appropriati; e catene di flussi di cassa delocalizzati. Le imprese statali includono Rosatom, la società partecipata di estrazione e combustione dell’uranio; RusdHydro, il produttore di energia idroelettrica; Irkutskenergo, un fornitore di energia elettrica regionale a sud-est; Gazprom; Transneft, la compagnia degli oleodotti; Sovcomflot, la compagnia di navigazione statale; Russian Railways; Aeroflot; Rostelecom; e le tre banche statali, Sberbank, VTB e Vnesheconombank.”

Sorprendentemente, poco è stato scritto su questo dai media prima delle elezioni, anche se qualche segnale di attacco agli oligarchi avrebbe portato qualche milione di elettori in più a Putin. C’erano un paio di servizi in TV e poi la materia è scomparsa dalla vista pubblica. Putin continuerà questa questa lotta contro gli amministratori delegati che si occupano di beni dello stato nell’interesse delle loro famiglie? È difficile prevedere se alla fine Putin avrà il coraggio di lottare contro gli oligarchi o preferirà assecondarli.

Se vuole sopravvivere politicamente, dovrà attuare il programma nazionale, confrontarsi con gli oligarchi, frenare la classe creativa, fornire assistenza a coloro che lo hanno sostenuto. Ma Putin è un maestro del compromesso, compie un’azione decisiva solo se necessario. Sarà frenato da Dmitri Medvedev come suo primo ministro, un appuntamento estremamente sfavorevole da cui non si potrà scappare. Anche se personalmente fedele a Putin, non è un buon amministratore. Eppure sarebbe difficile farlo cadere a meno che non commetta una serie di errori.

La Russia si trova di fronte a una serie di anni fatidici. C’è il pericolo di una guerra israelo-americana contro l’Iran, e l’Iran è vicino della Russia e amico. La Siria, anche se in forma molto migliore dopo la presa di Homs, è ancora nei guai, e la Siria è il punto d’appoggio della Russia nel Vicino Oriente. Il futuro dell’euro e della Comunità Europea è in bilico, mentre l’Europa è il principale interlocutore commerciale della Russia. Per gli Stati Uniti è l’anno delle elezioni presidenziali, un momento in cui i politici fanno a gara a chi è il più duro al mondo e verso la Russia. In un certo senso, è un sollievo che questo paese importante sia nelle mani di Putin.

FONTE: http://www.counterpunch.org/2012/03/09/no-apocalypse-yet/

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L’orrore di Homs

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Una fonte del Ministero dell’Informazione ha dichiarato che le foto diffuse da diversi canali satellitari riguardano i crimini commessi dai gruppi terroristici armati contro le persone che sono state rapite ed uccise ad Homs. La fonte ha aggiunto che diversi cittadini sono stati rapiti e uccisi dai terroristi in diverse zone della città e i loro corpi sono stati mutilati e ripresi per inviare poi le immagini ai media, allo scopo di incitare ad una presa di posizione internazionale contro la Siria.

“Ci siamo ormai abituati ad un crescendo delle azioni criminali da parte dei terroristi in prossimità delle riunioni del Consiglio di Sicurezza – ha aggiunto la fonte – al solo scopo di sollecitare delle misure contro la Siria”.

La fonte ha aggiunto che i canali satellitari, primi fra tutti Al Jazeera e Al Arabiya, partecipano ai crimini commessi dalle bande armate e accreditano i terroristi come loro corrispondenti nelle zone in cui vengono commessi tali crimini.

Gli abitanti di diversi quartieri di Homs hanno raccontato alla televisione siriana l’orrore degli omicidi e dei rapimenti commessi dai gruppi armati contro i cittadini, dicendo che le immagini trasmesse dai canali satellitari sono quelle di alcuni dei loro parenti e che avevano riconosciuto alcuni dei cadaveri di persone che erano state rapite e uccise dai gruppi terroristici.

(Ambasciata di Siria a Roma, 12 marzo 2012)

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I BRICS vogliono abbandonare il dollaro

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Polina Chernitsa, “Voix de la Russie”, 14.03.2012

I tentativi da parte dei BRICS di ridurre l’uso del dollaro sono ben fondati e non comportano rischi significativi, ritengono gli esperti russi. Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa intendono non solo ridurre la quota della valuta statunitense nelle loro transazioni, ma vogliono anche passare ad un sistema di mutui crediti in valute nazionali.

L’accordo tra i membri del gruppo potrebbe essere firmato in occasione del prossimo vertice di Nuova Delhi, il 29 marzo. Gli esperti osservano che il rifiuto delle transazioni in dollari diventerà una pietra miliare per lo sviluppo del BRICS.

È la Cina che ha iniziato questo tipo di “ritiro” dalla valuta statunitense. Perché Pechino è attualmente il più grande detentore di riserve in dollari. E il Regno di Mezzo sta cercando di ridurre i rischi potenziali associati alla posizione dell’economia degli Stati Uniti. Il debito nazionale degli Stati Uniti ha già superato i 15.000 miliardi dollari, e la stessa moneta è stata emessa in modo quasi incontrollabile negli ultimi anni. In questo contesto, l’iniziativa di Pechino è abbastanza comprensibile e logica, ha detto l’economista Aleksandr Ossin in un’intervista a Voce della Russia.

“In realtà, la Cina, ha detto che l’economia attuale è inefficiente, e crea rischi. Il paese dispone attualmente di tre trilioni di dollari di riserve. E non vuole perderli immediatamente, senza creare un “cuscino di sicurezza”. La Cina sta creando un nuovo meccanismo, comprendente un sistema di interazione con gli importatori alternativi della sua produzione, e i paesi che forniscono materie prime. Pechino svolge anche attività nella sua sfera politico-economica, cercando di rafforzare le strutture dell’economica mondiale multipolare. E questa è una situazione affatto normale.”

Appena un anno fa, al vertice dei BRICS nella città cinese di Sanya, i partecipanti avevano firmato un accordo quadro, che prevedeva il passaggio ai pagamenti reciproci e ai crediti nelle valute nazionali dei cinque paesi. La Banca Centrale della Cina ha detto che prevede di rilasciare anche un fondo speciale di 10 miliardi di yuan. Anche la banca centrale russa ha accettato di finanziare questo progetto. Il documento, che potrebbe essere firmato a Nuova Delhi alla fine di marzo 2012, quindi, avvierebbe il processo, prevedono gli esperti.

L’unica domanda è, quali sono i rischi. E qui, le stime variano. Per la Russia, le conseguenze di questa misura saranno le più difficili da prevedere, ha detto il direttore dell’Istituto di strategia nazionale Nikita Krichevskij.

“C’è la necessità per questi paesi di approfondire gli scambi reciproci e i legami economici. Ma allo stesso tempo, gran parte dei mercati delle materie prime tradizionalmente commerciano in dollari. E tutti i tentativi di impedire l’utilizzo del dollaro come mezzo universale di pagamento, per un determinato prodotto, saranno infruttuosi. Ma le esportazioni russe verso i BRICS non si limitano alle materie prime. In caso di pagamento per altre categorie di beni, non escludo che Mosca possa passare a regolarsi con la moneta nazionale con i suoi partner. Ma poi, una domanda sorge spontanea: cosa fare con la sua moneta in futuro”?

Fino ad ora, le valute dei BRICS non erano liberamente convertibili. E poi, lo yuan cinese è legato al dollaro. Tuttavia, Mosca e Pechino hanno sostenuto che la questione della convertibilità potrebbe già essere risolta in un prossimo futuro. E i paesi stanno lavorando attivamente in questa direzione. Pechino sta negoziando con i suoi vicini del Sud-Est asiatico e gli fornisce crediti. Riguardo alla quota di transazioni in rubli russi nella CSI, ha già superato il 50%. E nelle zone di frontiera, i due paesi conducono le operazioni commerciali in yuan e rubli.

“Il fatto che i BRICS riducano il volume degli scambi in dollari è un passo logico, una decisione che stabilizza l’economia mondiale e le economie nazionali dei paesi”, ha detto l’economista Roman Andreev. “Inoltre, siamo stati i primi in Russia ad introdurre una moneta-paniere con due divise nei calcoli delle transazioni. Le nostre riserve internazionali vengono depositate nelle due valute, cosa abbastanza vantaggiosa. Le riserve in valuta estera non sono influenzate dai movimenti dei tassi di cambio della coppia euro-dollaro.”

Gli esperti concordano sul fatto che è presto per parlare di passaggio totale alle monete nazionali nel commercio e nei crediti tra i BRICS. Le strutture di esportazione ed i loro orientamenti sono diversi a seconda i paesi. Gli Stati Uniti rimangono per ora il partner principale di Pechino, e per Mosca è sempre l’Unione europea. Tuttavia, delle misure concrete per rafforzare i BRICS sono già state prese. In questo modo, la Russia sta cercando di promuovere più attivamente i propri interessi economici nell’area Asia-Pacifico, e la Cina sta lavorando con l’Africa da diversi anni, collaborando con le aziende del Sud Africa.

FONTE: http://french.ruvr.ru/2012_03_14/68381855/

Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://sitoaurora.altervista.org/home.htm
http://aurorasito.wordpress.com

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Uno sguardo al regime politico iraniano: cosa vuol dire “Repubblica islamica”?

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Dopo il referendum istituzionale della primavera del 1979, col quale gli iraniani scelsero il loro nuovo regime politico che doveva sostituire la monarchia della dinastia Pahlavi, il nome ufficiale del Paese divenne “Repubblica islamica dell’Iran”. Non era la prima volta che un Paese assumeva una forma di Stato che richiamasse direttamente il modello islamico, ammesso e non concesso che esista una forma univoca di “modello islamico”; infatti, prima dell’Iran, un altro Paese asiatico aveva assunto il nome di Repubblica islamica, ovvero il Pakistan.

Ma nel caso iraniano, non eravamo semplicemente a un richiamo generico all’Islam come religione di Stato o un vago divieto per il potere legislativo di emanare norme in antitesi rispetto alle leggi coraniche. Il modello “islamico-iraniano” era e rimane senza ombra di dubbio un sistema “sui generis”, in quanto da secoli, e soprattutto in Europa, vi è l’evidente volontà di dividere la religione dallo Stato e l’etica dalla politica, addirittura anche in quelle che si definiscono “nazioni islamiche”.

Ciò deriva principalmente da due fattori:

1- L’Iran è un Paese sciita, al contrario della maggioranza dei Paesi musulmani che sono di confessione sunnita.

2- In Iran la vera forza politica trainante della Rivoluzione islamica del 1979 è stato il “clero” (anche se nell’Islam non ne esiste uno paragonabile a quello cattolico, sia come struttura, sia come gerarchie).

Per capire meglio questi due fenomeni e quindi in ultima analisi rispondere al quesito “cosa vuol dire Repubblica islamica?” dobbiamo capire alcuni tratti salienti del Testo costituzionale iraniano in vigore dal 1979 e rapportarli ad alcuni canoni e capisaldi del pensiero musulmano sciita.

L’islam sciita e la guida della comunità

Se dovessimo scegliere un articolo solo della Costituzione iraniana per capire meglio la mentalità e il “modus cogitandi” del Costituente del 1979, sicuramente quell’articolo dovrebbe essere il quinto:

Durante il tempo dell’occultazione del dodicesimo Imam (possa Dio accelerare la sua ricomparsa), nella Repubblica islamica dell’Iran, la tutela degli affari e l’orientamento della nazione sono affidati alla responsabilità di un giurista specializzato in diritto islamico, giusto ed onesto, conoscitore della propria epoca, coraggioso, dotato di iniziativa ed abilità amministrativa…”.

Secondo il pensiero sciita, dopo la morte del Profeta Muhammad le guide dello Stato islamico non devono essere scelti dagli uomini, ma in un certo senso come i profeti anche gli “Imâm” (lett. “colui che sta davanti”, “guida”) dovevano avere un’investitura divina. Il detentore dell’autorità spirituale e del potere temporale (che secondo la maggioranza degli orientamenti della vasta galassia del mondo musulmano devono coincidere nella stesa persona), quindi, non doveva avere una “legittimazione democratica”, ma divina. Bisogna fare attenzione a non confondere però la “legittimazione” con altri concetti come “supporto popolare” o “sostegno democratico”.

I sostenitori della forma di Stato iraniana generalmente tendono a considerare la legittimazione divina e il sostegno democratico due questioni complementari e non antitetiche. In poche parole, Dio legittima il sovrano, ma il popolo se non lo segue e non lo supporta “vanifica” nei fatti la volontà divina, come effettivamente accadde per i dodici successori di Muhammad, secondo l’interpretazione sciita (a parte il primo Imâm, ‘Alî Ben Abî Tâleb, quarto califfo “ortodosso” per i sunniti).

Un tema centrale nel modello politico iraniano è poi il tema della “occultazione” di cui parla l’art. 5 della Costituzione. Per gli sciiti infatti il dodicesimo e ultimo Imâm della comunità, nato più di mille anni or sono, sarebbe ancora vivo ed in stato di “occultazione” per poi riapparire come Mahdî (“ben guidato”) alla “fine dei tempi” per instaurare un governo mondiale basato sulla giustizia (credenza, questa, diffusa in molte religioni).

La domanda che si pongono gli studiosi, perciò, è la seguente: chi ha il diritto di guidare lo Stato islamico nel periodo della “occultazione” dell’Imam? La Costituzione iraniana risponde attraverso l’art. 5 citato prima, autorizzando di fatto gli esperti delle scienze islamiche e del diritto islamico a scegliere un dottore della legge con capacità adatte alla gestione della cosa pubblica. Il Capo dello Stato islamico-iraniano si definisce come Guida (in persiano “Rahbar”), e dopo la morte dell’Ayatollah Khomeyni, verso la fine degli anni Ottanta, la carica da allora fino ad oggi è stata ricoperta dall’Ayatollah Khamene’i, eletto dal “Consiglio degli esperti” (organo composto da un’ottantina di membri eletti dal corpo elettorale ogni otto anni). Quindi il garante ultimo dell “islamicità” della Repubblica è la Guida, che attraverso il suo rango di “Sommo sacerdote”, interviene per evitare un deragliamento dal sentiero tracciato dai principi islamici: il mezzo attraverso il quale interviene la Guida per evitare la negazione dell’Islam da parte degli organi dello Stato è una sorta di potere di veto (“Hokmehokumati”, letteralmente “ordine dello Stato”).

Repubblica teocentrica

Ora che è più chiaro il concetto di Islam al quale si riferivano i fondatori della Repubblica islamica, bisogna vedere se un termine come “Repubblica” non sia in contraddizione con un regime islamico che è legittimato da Dio, essendo il sistema repubblicano legittimato normalmente dal popolo. La “Repubblica” di cui si parla in Occidente è sicuramente in antitesi con uno Stato islamico, ma il punto fondamentale è che per i costituenti iraniani “Repubblica” vuol dire semplicemente la possibilità che i cittadini possano scegliere i propri governanti, senza però che vi sia una “legittimazione democratica” dell’ordine costituito.

Attraverso una forzatura si può affermare che “Repubblica islamica” vuol dire “uno Stato teocentrico nel quale vigono le elezioni”. Nella forma classica dello Stato islamico, ovvero quella sorta di monarchia “islamocentrica” dei vari califfi e sultani (l’Impero Ottomano, l’Impero Safavide ecc…) non c’era posto per le elezioni, e il popolo era passivo nei confronti della classe dirigente. Nella Repubblica islamica dell’Iran, invece, il popolo elegge i governanti, senza però rinnegare il ruolo fondamentale del diritto islamico. Se il garante della “islamicità” del sistema è la Guida, il garante della “repubblica teocentrica” è il popolo stesso, attraverso la partecipazione alle elezioni.

Dal 1979 ad oggi, in Iran si sono svolte circa 30 elezioni (la media è di una tornata elettorale all’anno!) tra politiche, amministrative, presidenziali e referendum. Lo Stato iraniano quindi non è una Repubblica “laica” in senso occidentale, in quanto la legge di Dio è comunque sovraordinata alla legge dell’uomo, ma non è nemmeno una “teocrazia” classica nella quale i cittadini non hanno voce in capitolo. Questo principio generale, presentato per la prima volta in Iran nel 1979, oggi è ripreso, mutatis mutandis, da alcune correnti del mondo arabo che propongono, prevalentemente in ambito sunnita, una forma di Stato in cui l’Islam non sia in antitesi con uno Stato democratico moderno.

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Siria, Iran: lo spionaggio statunitense ha una sua politica

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12/03/2012 – Bloc-Notes

Gli esempi continuano ad accumularsi sulla disparità tra gli atti sistematici delle dirigenze politiche e le loro analisi, generalmente presentate dopo l’esplodere di questi atti, e le analisi delle informazioni relative a queste crisi, dove queste dirigenze pongono i loro atti. (Per “atti di dirigenza politica” si intendono evidentemente dei processi di comunicazione, essenzialmente dichiarazioni, pressioni, influenze, ecc. Si tratta naturalmente del comportamento corrente di queste direzioni, più dialettica e virtuale che veramente operativa, anche per quanto riguarda i problemi cosiddetti geopolitici più acuti – come l’attacco a sorpresa contro l’Iran, dibattuto pubblicamente per sette anni, tra quasi un mese…)

Ciò che suscita qui un proposito è l’annuncio di “funzionari di alto livello statunitensi” secondo cui le analisi dello spionaggio statunitense mostrano una situazione siriana significativamente diversa da quella trasmessa dalla dirigenza politica washingtoniana. Secondo queste analisi, il governo Assad è saldamente al potere, dovrebbe sopravvivere alla ribellione attuale, che non rappresenta la maggioranza della popolazione siriana.

Secondo RussiaToday del 10 marzo 2012: “Ufficiali dei servizi segreti [degli USA] hanno rilevato che l’opposizione siriana è disorganizzata, rappresenta una sfida insignificante per il regime e i dirigenti politici del Consiglio Nazionale siriano non cooperano e spesso lottano tra di loro.

“Nel frattempo, le forze governative, sono molto ben equipaggiate, affermano gli esperti dello spionaggio degli Stati Uniti. Descrivono la Siria come una grande potenza militare, con 330.000 soldati in servizio attivo, dotati di droni di sorveglianza nonché una fitta rete di installazioni di difesa aerea che renderebbe difficile stabilire una no-fly zone. “Questa dirigenza combatte sul serio” ha detto uno di loro. […] Mentre la dichiarazione non parla direttamente della progredire del conflitto, ha reso un’impressione secondo cui il conflitto persisterà per molti mesi, se non di più…”

Antiwar.com del 10 marzo 2012, che riporta le stesse informazioni, rileva inoltre le contraddizioni nella politica ufficiale del governo degli Stati Uniti (e degli altri paesi del blocco BAO).

“L’ammissione è significativa, in quanto i funzionari degli USA hanno per mesi definito dei disordini una sollevazione popolare e fatto appello pubblicamente alla fine del regime di Assad, che sosteneva fosse comunque imminente. Il presidente Obama aveva detto, “in ultima analisi, questo dittatore cadrà.” L’amministrazione Obama ha fatto una questione di politica aiutare l’opposizione siriana nel suo tentativo di rovesciare Assad. Ma questo obiettivo politico sarà difficile da giustificare, se perfino i responsabili politici degli Stati Uniti hanno ammesso che i combattenti dell’opposizione rappresentano una piccola minoranza di siriani in una violenta guerra civile”.

Va notato che una situazione in qualche modo simile esiste nella crisi iraniana. Recentemente è stato diffuso il National Intelligence Estimate (NIE 2010), che raccoglie e sintetizza le analisi delle principali agenzie di spionaggio statunitensi. Il 25 febbraio 2012, Antiwar.com ha riferito sui risultati del NIE, che hanno confermato, quello famoso del 2007 (NIE 2007). Lo spionaggio statunitense ha confermato la sua analisi secondo cui l’Iran non sviluppa armi nucleari e non ha ancora preso una decisione definitiva sul caso. Ancora una volta, questa è una contraddizione abbastanza netta alle tendenze attuali del discorso politico, ripetute ad nauseam.

Ci sono elementi sufficienti per osservare che questa è una situazione generale, effettivamente inaugurata dalla diffusione del NIE del 2007, che è poi stata qualificata (il 7 dicembre 2007) come “colpo di stato postmoderno”. La burocrazia degli analisti dello spionaggio, sorpassando il potere politico (il NIE del 2007 è stato reso pubblico, nonostante l’ostruzionismo del vicepresidente Cheney), esponeva pubblicamente la propria posizione e si liberava pure di ogni responsabilità nei confronti di una qualsiasi decisione bellicista della dirigenza politica. Infatti, il NIE del 2007 può aver contribuito in modo decisivo ad annullare tutti gli sforzi dei massimalisti per lanciare un attacco contro l’Iran fino alla fine del mandato Bush, e oltre. Il nuovo NIE (NIE 2010), bloccato per mesi dal potere politico, ha seguito l’esempio e ribadisce la posizione della “comunità dello spionaggio” nei confronti della situazione iraniana.

Il caso siriano rivela la stessa politica autonoma di questa “comunità dello spionaggio” che, anche in questo caso, mette davanti alla loro responsabilità il potere politico, incluso il Congresso, ed i vari organi di comunicazione in generale di tendenza massimalista. (I militari seguono approssimativamente la stessa tendenza ad affermare la loro posizione autonoma di ostilità a un conflitto, sia nel caso siriano che nel caso iraniano.) E’ anche difficile definire la posizione dell’amministrazione in questo affare di minacce di un conflitto, mentre la posizione del presidente Obama oscilla tra il suo discorso bellicista e le sue vere posizioni (soprattutto verso gli israeliani, nel caso dell’Iran).

Va notato che lo spionaggio statunitense, dopo più di 5 anni in cui si trovava sotto i colpi delle manovre di Cheney, Rumsfeld e dei vari imbroglioni neocon, tra il 2002 e il 2007, ed era portata a coprire delle operazioni ritenute ingiustificate, ha introdotto, con il “colpo di stato postmoderno” del NIE 2007, una posizione di indipendenza nei confronti del potere politico, che non ha mai più lasciato. Questa posizione solitamente riflette l’indebolimento degli Stati Uniti, con il dominio crescente dei vari centri che lo compongono, come quello dello spionaggio in questo caso. Il fatto è molto importante, dal momento che queste valutazioni dello spionaggio, se non sono mai decisive, hanno un significativo ruolo nel frenare le iniziative politiche, di solito esponendosi verso le politiche massimaliste, che vengono quindi contraddette dallo spionaggio. L’ultimo intervento sulla Siria, aggiunge un fattore importante in questo conflitto, rendendone più difficile una imperturbabile continuazione, tanto dalla politica della comunicazione quanto dalla politica stessa, che raccomandano un intervento contro il regime di Assad.

FONTE:http://www.dedefensa.org/article-syrie_iran_le_renseignement_us_a_sa_propre_politique_12_03_2012.html


Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://sitoaurora.altervista.org/home.htm
http://aurorasito.wordpress.com

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Aggiornamenti ambasciata di Siria – 15 marzo

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● Le autorità hanno arrestato ieri ad Homs alcuni dei terroristi colpevoli del brutale e terribile massacro di civili a Karam Al Zeitoun. Gli abitanti di Al Narhin, Karam Al Zeitoun, Aashira e Karam Al Louz, ad Homs, hanno raccontato storie orribili riguardo i crimini e i massacri commessi dai gruppi terroristici armati contro i cittadini, e le azioni di sabotaggio, distruzione e saccheggio da essi compiute in città.

Uno degli abitanti di Karam Al Zeitoun ha dichiarato che le persone innocenti uccise nel massacro compiuto nel quartiere dai terroristi, erano coloro che avevano rifiutato di partecipare a quanto chiedevano loro le bande armate, sottolineando che veniva ucciso chiunque si opponesse a ciò che esse stavano facendo.

Alcune persone hanno inoltre detto di essere rimaste sotto assedio a causa della presenza dei terroristi fino all’arrivo dell’esercito, che li ha liberati e ha fornito loro cibo, bevande, medicine e sicurezza.

● Le azioni di sabotaggio e distruzione compiute dai gruppi armati a Baba Amro iniziano ad emergere. La visita del quartiere, uno dei più colpiti ad Homs dalla distruzione e dai crimini dei terroristi, suscita dolore e commozione, tanto è l’orrore della distruzione. Ciò rivela il volto dei gruppi terroristici armati e di chi sta dietro di loro, sostenendoli con finanziamenti e armi, scoprendo così anche le dimensioni della cospirazione che ha come bersaglio la Siria.

I ministri dell’amministrazione locale, dell’elettricità e della salute hanno constatato ieri l’entità dei danni e della distruzione causata dai terroristici alle infrastrutture e alle strutture vitali di Baba Amro, individuando le priorità d’azione necessarie a ripristinare nel quartiere la vita normale.

● La città di Idleb è tornata ieri alla sicurezza e alla tranquillità dopo che le autorità competenti hanno ripulito i quartieri cittadini dai gruppi terroristici armati che terrorizzavano e aggredivano i cittadini, causando inoltre danni alle proprietà pubbliche e private.
Una fonte ufficiale della provincia ha anche dichiarato che le autorità hanno provveduto al sequestro di grandi quantità di armi, fra cui fucili automatici e lanciarazzi RPG, oltre a diverse granate e mitragliatrici di fabbricazione israeliana.
Gli abitanti della città hanno espresso la loro gioia per essere potuti tornare alle loro case, da cui erano stati costretti a scappare dalle bande armate, sottolineando come i terroristi abbiano seminato il terrore in città, scatenando il caos e impedendo ai cittadini di andare al lavoro.

● Diversi cittadini, resisi responsabili di violazioni della legge e che avevano imbracciato le armi a Sarghaya, alla periferia di Damasco, si sono consegnati alle autorità competenti, che a loro volta li hanno rilasciati poichè non si erano macchiati di crimini di sangue.
La consegna delle armi da parte di coloro che ne sono in possesso e il loro immediato rilascio da parte delle autorità, sono la prova migliore di quanto promesso dal governo siriano a tutti coloro che, avendo imbracciato le armi dopo essere stati manipolati e convinti, non si sono macchiati di crimini di sangue.

(Ambasciata di Siria a Roma, 15 marzo 2012)

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La contesa strategica dei gasdotti

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Il 1° marzo il governo di Islamabad ha annunciato che entro il 2014 verrà ultimata la costruzione gasdotto Iran – Pakistan, per un costo che si aggira attorno agli 1,5 miliardi di dollari.

Inizialmente tale gasdotto era stato progettato per raggiungere i terminali indiani di Fazilka, ma nel 2009 Nuova Delhi ha ceduto alle fortissime pressioni esercitate da Washington, che ha offerto le proprie tecnologie nucleari d’avanguardia per uso civile in cambio della rinuncia indiana alla finalizzazione del gasdotto.

Il Segretario di Stato Hillary Clinton – che aveva incassato un lauto dividendo strategico applicando l’embargo energetico all’Iran ed ottenendo che Unione Europea e Giappone rinunciassero ai propri interessi e facessero lo stesso – ha immediatamente intimato al governo pakistano di recedere dagli intenti dichiarati, minacciando di applicare sanzioni sufficientemente dure da strangolare la già disastrata economia del paese islamico.

Nonostante ciò, il Ministro degli Esteri di Islamabad Hina Rabbani Khar ha spiegato che l’afflusso del gas iraniano entro la fine del 2014 è di vitale importanza per economia pakistana, ed ha patrocinato alla sottoscrizione di un accordo in cui Islamabad e Teheran hanno fissato i prezzi e stabilito i limiti temporali entro i quali il tratto pakistano del gasdotto dovrà essere ultimato, poiché quello iraniano è già pronto all’uso.

La Russia ha espresso interesse ad aderire al progetto mentre la Cina ha rinnovato la propria alleanza con l’Iran stipulando un trattato in base al quale le forniture giornaliere di petrolio iraniano saliranno a quota 500.000 barili entro il 2012.

Quella di Pechino non è una mossa isolata, ma si staglia su di uno sfondo generale da cui emerge l’assistenza al Pakistan per quanto concerne l’ammodernamento dei suoi impianti nucleari civili e l’ambiziosa intenzione di agganciare al gasdotto Iran – Pakistan un tratto che raggiunga il gigantesco porto di Gwadar, che costituisce una gemma fondamentale della “collana di perle”, ovvero l’installazione di infrastrutture civili e militari in tutti i paesi costieri che si estendono dal Mar Rosso al Mar Cinese Meridionale.

La concreta possibilità che le trame diplomatiche intrecciate da Pechino, Mosca ed Islamabad possano vanificare gli effetti dell’embargo energetico e allentare la morsa della cosiddetta “strategia dell’anello dell’anaconda” – finalizzata ad impedire lo sbocco al mare delle potenze tellurocratiche dell’Heartland attraverso il controllo della fascia esterna, che Nicholas J. Spykman definì Rimland – gli Stati Uniti concentrano tutti i loro sforzi sulla realizzazione del gigantesco gasdotto Turkmenistan – Afghanistan – Pakistan – India, il cui costo è attualmente stimato in 8 miliardi di dollari (dai circa 3 iniziali) ma che, attingendo dai giacimenti turkmeni controllati dall’azienda israeliana Merhav – diretta dall’agente del Mossad Yosef Maiman – garantirebbe un cospicuo vantaggio strategico.

Questo gasdotto è però destinato ad attraversare le martoriate regioni di Herat e Kandahar, dove la resistenza opposta dai Talebani e più in generale dall’intera resistenza afghana all’occupazione statunitense è tale da mettere a repentaglio la sicurezza dell’intera conduttura.
Dal momento, inoltre, che le forze degli Stati Uniti di stanza in Afghanistan stanno inanellando un fallimento dopo l’altro e che il paese molto difficilmente potrà trovare un affidabile grado di stabilità interna dopo il ritiro degli occupanti (previsto per il 2014), la strada che conduce alla costruzione del Turkmenistan – Afghanistan – Pakistan – India appare lastricata di pesantissime incognite.

Washington, Tel Aviv e i loro alleati atlantici, tuttavia, continuano a puntare su questo progetto e per favorirne la realizzazione si muovono simultaneamente su più piani.
Da un lato, per impedire l’integrazione asiatica, erogano finanziamenti ai movimenti secessionisti regionali per promuovere la formazione di un Belucistan indipendente dall’autorità di Islamabad, dall’altro offrono circa 1 miliardo di dollari al Pakistan per ovviare alle drammatiche carenze energetiche cui il paese andrebbe inevitabilmente incontro qualora scegliesse di assecondare gli intenti degli Stati Uniti.
La traiettoria geostrategica che gli eventi futuri andranno a seguire è fortemente condizionata dagli sviluppi di questa specifica situazione imperniata su Iran e Pakistan.
Una traiettoria che potrebbe provocare enormi sconvolgimenti nell’ordinamento multipolare che va delineandosi.

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“Eurasia” intervista il presidente dell’Abkhazia

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In occasione delle elezioni parlamentari tenutesi in Abkhazia il 10 marzo scorso, un collaboratore di “Eurasia”, Filippo Pederzini, si è recato nel paese caucasico in veste di osservatore internazionale. Oltre a svolgere tale funzione, Pederzini ha illustrato l’attività di “Eurasia” al Ministro degli Esteri Viacheslav Chirikba ed ha avuto un colloquio col Presidente della Repubblica, Aleksander Ankvab. L’intervista esclusiva rilasciata dal presidente abkhazo, successivamente trasmessa dalle televisioni locali, sarà pubblicata sul prossimo numero di “Eurasia”.
 

Incontro con il presidente abkhazo Aleksander Ankvab

 
 

Lunedì 12 marzo “Eurasia” è stata presentata ufficialmente ad una quindicina di giornalisti degli organi di informazione abkhazi (stampa, radio e tv) in un’apposita conferenza stampa organizzata dal Ministero degli Esteri. La conferenza (alla quale ha partecipato anche il presidente dell’Associazione di Amicizia italo-abkhaza Mauro Murgia) è stata trasmessa dai programmi radiofonici del pomeriggio e dai telegiornali della sera ed è stata riportata sulla stampa il giorno dopo. Nel pomeriggio il collaboratore di “Eurasia” è stato ricevuto dal ministro della Sanità, col quale è rimasto a colloquio per un paio d’ore.

 

Il ministro degli Esteri abkhazo intervistato da "Eurasia".


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