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Putin fino al 2018

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Il 4 marzo 2012 il popolo russo ha votato. E, non dispiaccia a taluni, ha votato in maniera massiccia affinché Vladimir Putin diriga la Russia fino al 2018. Dopo lo spoglio del 99,3% delle schede, Vladimir Putin è in testa col 63,6% dei suffragi, seguito da Gennadij Zjuganov (17,19%) e da Mikhail Prokhorov (7,98%). Vladimir Zhirinovskij ottiene il 6,22% e Sergej Mironov il 3,85%. Il tasso di partecipazione si è attestato sul 65%.

Il risultato di queste elezioni è semplicemente una conferma di quello che tutti gli analisti lucidi e onesti avevano previsto, cioè che Vladimir Putin avrebbe ottenuto fra il 50% e il 65% al primo turno. Tutti i sondaggi lo davano vincitore al primo turno. Questo voto è anche un evento geopolitico di una portata che ancora senza dubbio sfugge alla grande maggioranza dei commentatori. L’elezione di Vladimir Putin per un terzo mandato si inscrive in una sequenza storica russa perfettamente coerente.

Nel marzo 2000, quando Vladimir Putin è eletto con poco più del 50% dei voti, il paese è devastato da un decennio postsovietico “eltziniano” ed esce da una grande crisi economica. Putin si manifesta ben presto come un uomo energico e il suo stile secco ed autoritario è positivamente apprezzato dalla popolazione russa. Fin dall’inizio degli anni 2000, Putin appare come una sorta di salvatore che restaura l’ordine pubblico. La sua seconda elezione nel 2004, con circa il 70% dei voti al primo turno, è un plebiscito. Il secondo mandato di Putin è il periodo di un’incontestabile rinascita economica.

Allorché nel 2008 egli cede il posto a Dmitrij Medvedev, l’autorità dello Stato è totalmente ristabilita ed è stato creato un partito di governo. In piena ripresa economica, nel marzo 2008 Dmitrij Medvedev è eletto presidente col 72% dei voti. Disgraziatamente, la Russia è colpita dalla crisi finanziaria mondiale e da una nuova guerra nel Caucaso. Nel 2009 il presidente Medvedev soffre delle conseguenze sociali della crisi e delle difficoltà di modernizzare il paese con l’auspicata rapidità. Anche la pressione internazionale diventa più forte e nell’ultimo anno del suo mandato la diplomazia russa è sconfitta in Libia e in Europa (scudo antimissile), sicché la politica estera di Medvedev è oggetto di critiche da parte dei Russi.

Dopo le elezioni parlamentari dell’ultimo decennio, nelle grandi città del paese hanno luogo manifestazioni di oppositori, le quali inducono certi commentatori stranieri a pensare che la Russia cominci a ribellarsi contro il “sistema Putin”. Altri, invece, vedono in queste manifestazioni l’embrione di una destabilizzazione orchestrata dall’esterno, secondo il copione delle “rivoluzioni colorate”. Parecchi indizi inducono a ritenere che questo scenario sia verosimile.

Paradossalmente, è stato questo rischio di “rivoluzione colorata” ad unire l’opinione pubblica ed a contribuire grandemente al successo di Putin. L’analista Jean-Robert Raviot ha definito questo fenomeno distinguendo tre Russie. La prima, la più mediatizzata perché occidentalizzata, è quella dei “moscoborghesi”, i borghesi metropolitani che i commentatori hanno battezzato come “classe media”. Poi c’è la Russia provinciale e periurbana, di gran lunga maggioritaria; animata da sentimenti patriottici, indebolita dalla crisi, essa costituisce lo zoccolo duro favorevole a Putin. Infine, la Russia delle periferie non russe, controllata da etnocrazie alleate del Cremlino, dove i risultati elettorali, alquanto omogenei, sono a favore del potere centrale.

In effetti, Mosca e San Pietroburgo sono le sole città in cui i risultati, presi isolatamente, avrebbero potuto dar luogo ad un secondo turno fra Putin e Prokhorov. Ma se questa Russia ricca, urbanizzata e occidentalizzata delle grandi città ha votato per Putin meno che il resto del paese, essa rimane tuttavia minoritaria. Invece la Russia delle città piccole e medie e delle campagne è molto più conservatrice e popolare. Votando massicciamente per Vladimir Putin, essa ha mostrato la propria inquietudine nei confronti di possibili torbidi. Dall’inizio degli anni 2000, la Russia prosegue nel proprio raddrizzamento e i disordini del primo decennio seguito alla scomparsa dell’URSS hanno profondamente segnato gli spiriti. Così il popolo russo ha fatto blocco dietro Vladimir Putin, respingendo ogni ingerenza esterna ed auspicando la prosecuzione della politica inaugurata dodici anni fa.

Lo stabile livello dei consensi ottenuti da Gennadij Zjuganov, il candidato del partito comunista, mostra che il partito ha fatto il pieno e che il 4% o il 5% dei suoi elettori dell’ultimo dicembre (il partito comunista aveva raggiunto il 19% alle legislative, avvantaggiandosi del suo statuto di principale concorrente di Putin) stavolta si è spostato su Mikhail Prokhorov. Indubbiamente quest’ultimo ha canalizzato la maggioranza dei voti degli oppositori che hanno manifestato nell’ultimo mese. Egli raccoglie infatti il 20% a Mosca e il 15,5% a San Pietroburgo. Lo scarso bottino di Vladimir Zhirinovskij è senz’altro da mettere in rapporto con l’elevata percentuale dei voti di Putin, poiché molti elettori del suo partito hanno votato per Putin al primo turno. E’ difficile immaginare che il partito di Zhirinovskij possa sopravvivere senza la presenza carismatica del suo capo. Infine, la cocente sconfitta del candidato Mironov (3,46%), il cui partito aveva ottenuto un numero elevato di voti alle legislative, mostra che gli elettori russi rifiutano i candidati troppo socialdemocratici.

Era scontato che molti commentatori stranieri (per negare un sostegno popolare che non possono né ammettere né comprendere) scrivessero che le elezioni sono state truccate e che sono state riscontrate numerose frodi in favore di Vladimir Putin. In ogni caso, come per le legislative, la stragrande maggioranza di queste accuse di frode si rivelerà infondata. Il numero dei reali casi di frode non dovrebbe superare i 300, contro i 437 delle legislative di dicembre.

Gli osservatori della Comunità degli Stati Indipendenti e dell’Organizzazione di Shanghai, nonché gli osservatori indipendenti, hanno dichiarato che lo scrutinio si è svolto normalmente e che l’elezione è stata conforme ai canoni; hanno anche proposto di instaurare il sistema di vigilanza voluto da Putin (96.000 seggi elettorali filmati da 91.000 telecamere) per le elezioni del Parlamento europeo. A questo proposito: se Mikhail Prokhorov è risultato primo in Francia e in Inghilterra, i Russi di Germania e di Spagna hanno votato per Putin in maniera maggioritaria.

Che cosa succederà adesso? L’opposizione ha annunciato che continuerà a manifestare, come d’altronde ha già fatto all’indomani dei risultati elettorali. Ma la manifestazione ha radunato solo 10.000 persone e il clima sembra già cambiato. Nel corso della manifestazione Mikhail Prokhorov e Boris Nemtzov sono stati coperti di fischi, mentre Aleksej Navalny e Sergej Udaltzov (nazional-liberale il primo, di estrema sinistra il secondo, ma alleati contro Putin) sono stati oggetto di un’ovazione. Al termine della manifestazione, rifiutando di abbandonare il luogo ed esortando ad occupare la piazza, hanno provocato l’intervento della polizia contro i 300 o 400 irriducibili che li accompagnavano, per la gioia dei giornalisti stranieri. Più tardi, un centinaio di ultranazionalisti ha cercato di marciare sul Cremlino, provocando un analogo intervento della polizia. Ci si può dunquedomandare se l’opposizione legale non si sia cristallizzata intorno a Mikhail Prokhorov e se la frangia più radicale ed antipolitica di questa variegata opposizione non cercherà di provocare disordini, rifiutando di riconoscere un’elezione che nel mondo non è più contestata da nessuno.

NOTE
Traduzione di Claudio Mutti

*Alexandre Latsa è un giornalista francese che vive in Russia e gestisce il sito DISSONANCE, volto a fornire una “visione diversa della Russia.” Collabora inoltre con l’Istituto per le relazioni internazionali e strategiche (IRIS) e partecipa a varie altre pubblicazioni.

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Agente dell’imperialismo e nemico del mondo arabo

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Il quotidiano algerino “Elkhabar.com” informa in data odierna che il 7 marzo scorso l’ex ambasciatore tunisino presso l’UNESCO, Mezri Haddad, ha rifiutato di stringere la mano all’ambasciatore catariota Ali Zinal, accusando il Qatar di “complottare e voler distruggere il mondo arabo” e denunciando che “l’Algeria sarà il prossimo bersaglio”.

Secondo il sito “Middle West Online”, il diplomatico avrebbe aggiunto: “Io non stringo la mano di un agente dell’imperialismo e nemico del mondo arabo!”

Mezri Haddad ha detto inoltre: “Voi avete distrutto la Tunisia, l’Egitto e la Libia. Voi seminate la discordia in Siria e complottate contro l’Algeria. Lei rappresenta un paese nemico degli Arabi. Mi sentirei disonorato se dovessi stringerle la mano”.

Secondo Mezri Haddad, “il Qatar cerca di dividere gli Arabi” e attualmente sta progettando di concentrarsi sull’Algeria.

Sotto l’articolo di “Elkhabar” compaiono molti commenti di elogio per Mezri Haddad e di condanna del Qatar.

C. M.

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“CONDUCĂTOR, l’edificazione del socialismo romeno”

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Sabato 14 aprile 2012, vi invitiamo all’incontro pubblico:

“CONDUCĂTOR, l’edificazione del socialismo romeno”,

che avrà inizio alle ore 16.30, in Via Panciroli 12, a Reggio nell’Emilia, presso il Centro sociale “Catomestot”.

Intervengono:

Marco Costa – Autore dell’omonimo libro

Claudio Mutti – Direttore di “Eurasia – Rivista di Studi Geopolitici

Luca Bistolfi – Scrittore e studioso di Europa dell’Est

Calin MihaescuEditura Eurasiatica Bucarest

L’ingresso è libero e gratuito.

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Chiapas: il Papa? No, grazie

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Mentre scrivo, papa Benedetto XVI sta compiendo il suo ventitreesimo viaggio all’estero — una visita pastorale in Messico e a Cuba. Fra i temi che il Pontefice Romano affronterà spicca quello, delicatissimo e problematico, dell’annuncio del Vangelo nei due Paesi: povertà, violenza, criminalità e libertà variamente conculcata sono le piaghe che affliggono tradizionalmente il “cortile di casa” statunitense.

Tuttavia c’è un’altra spina, poco appariscente ma non per questo meno dolorosa, nel fianco della Chiesa di Roma: ed è il fenomeno delle conversioni di massa — dal cattolicesimo al protestantesimo e addirittura all’islam — che si verificano a decine di migliaia nel Chiapas, la regione messicana nota per essere la culla del movimento zapatista.

L’abbandono della religione cattolica in favore di altre confessioni è iniziato alla metà degli anni Novanta del ventesimo secolo: forse non casualmente di pari passo con l’ascesa dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN), che il 1° gennaio 1994 si fece conoscere in tutto il mondo con una plateale azione dimostrativa eseguita in concomitanza con l’entrata in vigore del NAFTA (North American Free Trade Agreement; in spagnolo TLC, Tractado de Libre Comercio).

Il Chiapas, non bisogna dimenticarlo, è una delle regioni messicane con la maggior concentrazione indigena: vale a dire che da sempre la sua popolazione è costretta a vivere, o meglio a sopravvivere, in una condizione di estrema precarietà e di povertà endemica. Il movimento zapatista, che si è schierato al fianco degli indigeni sfruttati, espropriati delle loro terre, cacciati dai propri territori e spesso letteralmente schiavizzati dalle multinazionali d’Occidente, è stato praticamente l’unico a mostrare di avere a cuore le sorti delle comunità autoctone.

Prima di lui, avrebbe dovuto farlo la Chiesa: e per molto tempo gli indios hanno creduto che fosse davvero così. Ma la realtà è stata molto diversa: secondo Gaspar Marquecho, antropologo dell’università autonoma del Chiapas, «gli indios sono delusi dal cattolicesimo, carico di memorie coloniali e dell’autoritarismo dei preti meticci. Al contrario le chiese evangeliche, rispettose come sono del loro sincretismo, rispondono meglio ai loro bisogni di spiritualità e solidarietà di fronte alla povertà, all’analfabetismo e alla discriminazione» (Frédéric Saliba, Les Indiens du Chiapas tournent le dos au catholicisme, “Le Monde”, 21 marzo 2012). E Sandra Canas, ricercatrice di antropologia presso l’università del Texas, aggiunge: «In realtà i conflitti non sono religiosi bensì politici ed economici. Scegliendo di diventare evangelici, gli Indios scelgono di rompere col sistema autoritario e corrotto delle autorità civili locali, legate a doppio filo con le autorità cattoliche» (ibidem).

Il clero locale l’ha compreso benissimo, anche se non tutti hanno seguito l’esempio di Samuel Ruiz, arcivescovo di San Cristobal de las Casas dal 1959 al 1999: un quarantennio di impegno sociale oltre che pastorale, nel solco di quella teologia della liberazione (TdL) che folgorò anche monsignor Oscar A. Romero — l’arcivescovo del Salvador che pagò con la vita l’amore per la sua gente proprio in questi giorni, trentadue anni fa, il 24 marzo 1980. Mons. Ruiz è morto il 24 gennaio 2011, col dolore di aver visto salire al soglio pontificio proprio il più fiero avversario della TdL: Joseph Ratzinger. Vale la pena di riportare le parole di Giulio Girardi, salesiano e teologo della liberazione, che così si esprimeva nel settembre 2005, pochi mesi dopo l’elezione di Ratzinger al trono di Pietro: «La Teologia della liberazione nell’epoca di Ratzinger? La mia previsione sul pontificato di Benedetto XVI è che si manterrà sulla stessa linea di Giovanni Paolo II. Il fondamento più sicuro ed evidente di questa previsione è che per venti anni il cardinale Ratzinger, come prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, è stato il principale ispiratore e punto di riferimento di Giovanni Paolo II. Infatti, in queste prime settimane del suo pontificato, Ratzinger si è molto riferito al suo predecessore, quasi a voler rendere esplicita la continuità tra i due. Questo significa, dunque, affermare l’attualità dei documenti redatti da Ratzinger cardinale, di condanna della Teologia della liberazione e del suo supposto fondamento nel marxismo […] Significa in particolare riaffermare il giudizio di Giovanni Paolo II, nel suo secondo viaggio in Nicaragua, secondo cui la Teologia della Liberazione era morta, dato che era morto il suo fondamento, il marxismo. Si doveva dunque celebrare allo stesso tempo il funerale del marxismo e quello di sua figlia, la Teologia della Liberazione. Affermare la continuità tra i due pontificati significa, purtroppo, prolungare la revoca della condanna della Teologia della Liberazione da parte del governo centrale della Chiesa. Significa prolungare l’incomprensione della Teologia della Liberazione da parte della teologia della Chiesa centrale» (da un’intervista rilasciata a Stella Spinelli per PeaceReporter; Giulio Girardi è morto un mese fa, il 26 febbraio).

E infatti, puntualissimo, Benedetto XVI ha già dichiarato che il marxismo non risponde più alle esigenze del reale, e che non sa se la TdL possa aiutare a comprendere e risolvere i problemi della società. Invece mons. Romero, pochi mesi prima di finire ammazzato sull’altare, aveva compreso perfettamente e con chiarezza (così scriveva nel suo diario) «che l’anticomunismo, fra di noi, molte volte è l’arma che usano i poteri economici e politici per continuare le loro ingiustizie sociali e politiche». Del resto, non omnia omnibus.

Alessandra Colla, 24 Marzo 2012

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Seminario: “Verso l’Unione Eurasiatica. Il ritorno della potenza russa?”, resoconto, foto e video

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Un folto pubblico al seminario modenese organizzato dall’associazione culturale ‘Pensieri in Azione’ in collaborazione con la rivista di studi geopolitici “Eurasia”, patrocinato dal Comune di Modena.
 
L’Eurasia è argomento di attualità, a maggior ragione quando si parla di reali opportunità di crescita economica. Ne è stata la conferma l’incontro tenutosi sabato 24 marzo a Modena, dedicato al nuovo Spazio Economico Unico sorto dall’accordo siglato da Russia, Bielorussia e Kazakhstan per l’istituzione di un’unione doganale preliminare all’unificazione dell’economia delle tre repubbliche, accordo entrato ufficialmente in vigore l’1 gennaio 2012.
Patrocinato dal Comune di Modena e organizzato presso il locale Palazzo dei Musei dall’Associazione culturale ‘Pensieri in Azione’ in collaborazione con la rivista di studi geopolitici “Eurasia” – l’iniziativa rientrava nel ciclo di incontri seminariali programmati per l’anno 2012 dalla rivista medesima –, il convegno ha visto la partecipazione di oltre una sessantina di persone, molte delle quali provenienti anche da altre province, tra cui numerosi imprenditori.
Il Console Generale della Federazione Russa, S. E. Alexej Vladimirovich Paramonov, assente a causa di impegni istituzionali sopraggiunti all’ultimo minuto, ha fatto pervenire una lettera di ringraziamento e congratulazioni per l’importante dell’iniziativa*.
Aleksandr Dugin, docente universitario presso l’Università Statale di Mosca e presidente del Movimento Internazionale Eurasia, in collegamento dalla capitale russa, ha focalizzato l’attenzione sul fatto che lo Spazio Economico Unico nel cuore dell’Eurasia rappresenta un traguardo di portata storica non solo per i tre paesi firmatari, ma anche per tutti gli Stati postsovietici.
Il dott. Marco Costa, autore di Soviet e Sobornost (Edizioni all’insegna del Veltro), si è soffermato sugli aspetti storico-politici della spiritualità nel mondo russo.
E’ toccato al dott. Stefano Vernole, redattore della rivista “Eurasia”, parlare della rielezione di Vladimir Putin al Cremlino, dei rapporti economici tra Russia e Italia e, soprattutto, affrontare il significato della nuova entità economico-geografica, preludio di un più ampio processo che darà luogo all’Unione Eurasiatica (cui dovrebbero aderire Kirghizistan, Tagikistan, Uzbekistan, Armenia, Moldova e Ucraina).
Il convegno si è concluso con l’intervento del dott. Lorenzo Salimbeni, Presidente del Centro Studi Eurasia Mediterraneo, che svolto diverse considerazioni circa la politica estera, economica e strategica di Vladimir Putin.

 
* Riportiamo qui di seguito il testo della lettera inviata da S.E. Alexey Vladimirovich Paramonov, Console Generale della Federazione Russa a Milano:


 

 
● Qui di seguito riportiamo alcune foto e i link alle registrazioni audiovideo disponibili sul nostro canale youtube.
 


 

 


 


 


 

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La strategia della Germania

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George Friedman, il direttore di “Stratfor”, ha pubblicato di recente un lucidissimo e importante articolo (1) che prende in esame la strategia della Germania alla luce sia del mutamento del quadro geopolitico dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica (scomparsa che ha reso possibile la riunificazione della Germania), sia dell’attuale crisi economica di Eurolandia.

Secondo Friedman, la struttura dell’Europa occidentale, formatasi dopo la Seconda guerra mondiale e consolidatasi con la creazione dell’Unione europea, potrebbe essere sul punto di giungere alla fine, anche se al riguardo fondamentali saranno le scelte strategiche della Germania. Cioè di un Paese, nota Friedman, che non riuscì a sconfiggere, nella Grande Guerra, la Francia – e, di conseguenza, ad evitare di combattere su due fronti contemporaneamente – e, nella Seconda guerra mondiale, la Russia, permettendo ancora una volta agli Stati Uniti di essere l’ago della bilancia («In both wars, the strategy [si intende la strategia tedesca] failed. In World War I, Germany failed to defeat France and found itself in an extended war on two fronts. In World War II, it defeated France but failed to defeat Russia, allowing time for an Anglo-American counterattack in the west») .Una difficoltà, quella di trovare per la Germania un “equilibrio geostrategico” tra Est ed Ovest, che si presenta nuovamente come la più importante questione in Europa e probabilmente nel mondo («is certainly the most important question in Europe and quite possibly in the world»). La Germania infatti, osserva Friedman, se a causa della sua debolezza politica (dovuta a ragioni storiche troppo note per dover essere spiegate), ha necessità dell’Europa per crescere e svilupparsi, non può non tendere ad espandersi economicamente verso Est (tanto più che l’economia tedesca dipende in buona misura dalle esportazioni). Una “tendenza” che è diventata ancora più forte per la presenza di nuovi “attori geoeconomici” come i Brics, il Gruppo di Shanghai e l’Unione eurasiatica, ma in particolare, come giustamente sottolinea Friedman, per il fatto che, se la Russia ha bisogno della tecnologia tedesca, la Germania ha bisogno delle risorse energetiche russe.

Nondimeno, i tedeschi, pur sapendo sfruttare l’introduzione dell’euro per realizzare un eccezionale attivo della propria bilancia commerciale, non hanno saputo (né voluto, pur avendone la possibilità, si dovrebbe aggiungere) impedire che le nuove dinamiche economiche penalizzassero i Paesi europei mediterranei, che adesso devono pure fronteggiare la crisi bancaria e dei debiti sovrani, generata dalla crisi finanziaria del 2008. Il che ha spinto la Germania, per difendere l’euro e la stessa Unione europea, ad imporre misure di austerità e di rigore alle cosiddette “cicale europee”, basandosi essenzialmente sulla convinzione che la crisi del debito dei “Piigs” (Portogallo, Irlanda, Italia, Spagna e Grecia) sia “soltanto” la conseguenza della cattiva gestione della spesa pubblica e dell’inefficienza dei governi di tali Paesi. Perciò, spiega Friedman, è inevitabile che non solo si allarghi sempre più la forbice tra la Germania e i “Piigs”, ma che la politica della Germania venga considerata una grave minaccia alla sovranità degli altri Paesi europei, dato che è convinzione diffusa che la Germania cercherebbe unicamente di tutelare i propri interessi e addirittura di dominare l’intero continente europeo tramite l’economia. Pertanto, a giudizio di Friedman, è difficile capire come nel lungo periodo gli europei possano superare le loro divisioni, anche se, prima o poi, “il nodo verrà al pettine” («it is difficult to see how, in the long term, the Europeans can reconcile their differences on this issue. The issue must come to a head, if not in this financial crisis then in the next — and there is always a next crisis»).

D’altra parte, anche sotto il profilo politico-militare, nota il direttore di “Stratfor”, la Germania rappresenta una incognita, anche perché, oltre alle difficoltà di carattere politico ed economico che devono essere affrontate da una Nato “logorata” da continui interventi militari, la Germania ha mostrato di non avere intenzione (né necessità) di sostenere la politica di potenza su cui si fonda la strategia statunitense – una politica, tra l’altro, che la Russia ritiene pericolosa per la propria sicurezza nazionale. Inoltre, il rapporto tra la Germania e l’Unione Europea è soggetto a tensioni così forti da non potersi escludere che i tedeschi cerchino una soluzione alternativa, sebbene sia innegabile che la Germania debba (e voglia) mantenere buoni rapporti con la Francia. Per Friedman, quindi, è logico che per Berlino l’ideale sarebbe dar vita ad una intesa russo-franco-tedesca. Sicché non ci si deve stupire che attualmente la Germania sia impegnata a difendere l’Unione europea e i suoi rapporti con la Francia, ma al tempo stesso anche a far sì che la Russia si avvicini il più possibile all’Europa («Germany’s current strategy is to preserve the European Union and its relationship with France while drawing Russia closer into Europe»). Ovviamente, non è un’impresa facile e la crisi economica di Eurolandia la rende ancora più difficile. Comunque sia, Friedman conclude affermando che, poiché il rapporto tra la Russia e la Germania è un dato di fatto ed è destinato a diventare più solido con il passare del tempo, la Germania non potrebbe non decidersi per una alleanza strategica con la Russia, nel caso che l’Unione europea dovesse indebolirsi o sfaldarsi.

A questo proposito, è degno di nota che Friedman, in un articolo che prende in esame la strategia degli Usa, (2) dopo aver osservato che, mentre l’Europa rischia di sfasciarsi, la Germania potrebbe difendere meglio i propri interessi rafforzando le relazioni con la Russia, asserisca che in tal caso la “contromossa” migliore per gli Stati Uniti sarebbe nel sostenere la Polonia, che separa fisicamente la Germania dalla Russia, insieme con altri alleati chiave in Europa e che in realtà è ciò che gli Usa stanno facendo, benché con molta cautela («The American counter here is to support Poland, which physically divides the two, along with other key allies in Europe, and the United States is doing this with a high degree of caution»). D’altra parte, è lo stesso Friedman a riconoscere che l’Europa non solo non la si può controllare militarmente ma che, nel lungo periodo, rappresenta per gli Stati Uniti il pericolo più serio (“Europe is not manageable through military force, and it poses the most serious long-term threat”). Giudizio che Friedman esprime anche nell’articolo sulla Germania rilevando che, anche se gli Stati Uniti sono ancora la potenza predominante, la combinazione di tecnologia tedesca e risorse russe (un “sogno” di molti in passato), costituirebbe una “sfida a livello globale” («The United States is currently the dominant power, but the combination of German technology and Russian resources – an idea dreamt by many in the past – would become a challenge on a global basis»).

Si tratta di considerazioni, a nostro avviso, in larga misura condivisibili e che confermano che la “questione tedesca” è ben lungi dall’essere risolta, dato che essere una grande potenza geoeconomica ma non essere una potenza geopolitica è, in un certo senso, una contraddizione in termini. Una contraddizione che la Germania potrebbe risolvere favorendo la “crescita” di un autentico soggetto politico europeo, mentre – pur ammettendo che abbia il “diritto” e il “dovere”, in quanto Paese leader di Eurolandia, di esigere il “licenziamento” di classi dirigenti inette, come quella greca e quella italiana – si è ben guardata (finora) dal contrastare l’azione dei “mercati”, ossia di quei centri di potere che stanno già operando, come lascia intendere il direttore di “Stratfor”, per impedirle di svolgere un ruolo geopolitico a livello mondiale. Il che evidenzia la miopia strategica della Germania, che ritiene di poter conservare il ruolo di grande potenza geoeconomica, pur astenendosi dal prendere posizione riguardo alle “vicende geopolitiche”(comprese quelle che vedono la Russia contrapporsi agli Usa). Agendo così, peraltro, i tedeschi sembrano pure non prendere in considerazione che i centri potere atlantisti non avrebbero grande difficoltà a “sconfiggere” la stessa Germania, una volta che venisse isolata dal resto dell’Europa.

Perciò non è azzardato affermare che ancora una volta il destino dell’Europa pare essere nelle mani dei tedeschi, soprattutto se si tiene conto che l’indipendenza dell’Europa continentale e la costruzione di una alternativa all’unipolarismo atlantista presuppongono una alleanza strategica tra Europa occidentale e Russia – una alleanza che non potrebbe non essere imperniata sul ruolo chiave della Germania in quanto (unica) grande potenza geoeconomica europea. Vale a dire che la Germania avrebbe l’opportunità di fare una scelta opposta a quella che fece nel giugno del 1941, qualora riconoscesse che la strada che conduce ad una stabile e proficua alleanza strategica con la Russia passa di necessità (anche) attraverso il Mediterraneo, come gli angloamericani, al contrario dei tedeschi, hanno compreso benissimo da lunga data. In ogni caso è certo, se l’analisi di Friedman è corretta, che i prossimi anni, se non i prossimi mesi, ci diranno se la classe dirigente tedesca è sufficientemente matura sotto il profilo geostrategico per lasciarsi alle spalle la storia del Novecento. Ossia, a nostro giudizio -che sotto questo punto di vista non può non essere diverso da quello di Friedman – se saprà agire in un’ottica non atlantista, bensì veramente europea.


NOTE:

1) G. Friedman, The State of the World: Germany’s Strategy (http://www.stratfor.com/weekly/state-world-germanys-strategy).
2) G. Friedman, The State of the World: Explaining U.S. Strategy (http://www.stratfor.com/weekly/state-world-explaining-us-strategy).

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L’Ifigenia di Eliade al Teatro greco-romano di Catania

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“Ho scoperto che qui, in Europa, le radici sono molto più profonde di quanto avessimo creduto (…) E queste radici ci rivelano l’unità fondamentale non solo dell’Europa, ma di tutta l’ecumene che si estende dal Portogallo alla Cina e dalla Scandinavia a Ceylan”. Queste parole di Mircea Eliade, registrate da Claude-Henri Rocquet in una lunga intervista che uscì nel 1978 sotto il titolo L’épreuve du labyrinthe, sono emblematiche di quella dimensione eurasiatista del pensiero eliadiano alla quale ho dedicato un capitolo di una recente raccolta di saggi (1).

Lì ho avuto modo di far notare come nel ricco patrimonio etnografico della sua terra d’origine, la Romania, Eliade abbia individuato parecchi elementi che rinviano a temi mitici e rituali presenti in vari luoghi del continente eurasiatico. In particolare, ho citato una delle più celebri ballate popolari romene, quella di Mastro Manole, che Eliade ha sottoposto ad uno studio comparativo, richiamando tutta una serie di analogie che si intrecciano in una vasta area compresa tra l’Inghilterra e il Giappone. Infatti il tema che ispira la ballata in esame non è rintracciabile soltanto in Europa: “Il motivo di una costruzione il cui compimento esige un sacrificio umano è attestato in Scandinavia e presso i Finni e gli Estoni, presso i Russi e gli Ucraini, presso i Germani, in Francia, in Inghilterra, in Spagna” (2). L’area di diffusione di tale tema comprende anche la Cina, il Siam, il Giappone, il Punjab: “In Oriente sono state raccolte numerosissime tradizioni di questo tipo. Non c’è un monumento famoso che non abbia, nella realtà o nella leggenda, la sua vittima sepolta viva nelle fondamenta” (3).

A questo tema Mircea Eliade si ispirò allorché nel 1939 scrisse Ifigenia, dramma in tre atti e cinque quadri. Rappresentato per la prima volta nella sala “Comedia” del Teatro Nazionale di Bucarest il 12 febbraio 1941, il dramma fu diretto dal regista Ion Sahighian e musicato da N. Buicliu; il ruolo della protagonista venne affidato ad Aura Buzescu, quello di Achille a Mihai Popescu. L’opera fu nuovamente portata in scena nel 1982, al Nazionale di Bucarest, da Ion Cojar.

Con la sua Ifigenia, Mircea Eliade riprende la vicenda mitica trattata da Euripide nell’Ifigenia in Aulide (406 a.C.) e ripresa in età moderna da Jean de Rotrou (1503) e da Jean Racine (1674). Ma la versione eliadiana si caratterizza per il rilievo attribuito al tema del sacrificio, del quale il grande storico delle religioni si occupò, in quel medesimo periodo, anche con i Commenti alla leggenda di Mastro Manole (Bucarest 1943). La figlia di Agamennone accetta e sollecita il proprio sacrificio affinché la spedizione contro Troia possa compiersi con successo. “Potremmo dire – è questa la tesi di Eliade – che Ifigenia acquisisce un ‘corpo di gloria’ che è la stessa guerra, la stessa vittoria; vive in questa spedizione, proprio come la moglie di Mastro Manole vive nel corpo di pietra e calce del monastero” (4).

Tradotta in italiano un paio d’anni fa (5), la tragedia eliadiana ha attratto l’attenzione del regista Gian Piero Borgia, il quale ne ha curato una riduzione teatrale che, inserita nel cartellone della nuova stagione del Teatro Stabile di Catania, sarà presentata dal 26 giugno al 4 luglio al Teatro greco-romano della città etnea. Il ruolo di Ifigenia sarà interpretato da Lucia Lavia; Fausto Branciaroli reciterà nelle vesti di Achille.


NOTE:

1. C. Mutti, Esploratori del Continente. L’unità dell’Eurasia nello specchio della filosofia, dell’orientalistica e della storia delle religioni, Effepi, Genova 2011.
2. M. Eliade, Spezzare il tetto della casa, Jaca Book, Milano 1988, pp. 74-75.
3. M. Eliade, I riti del costruire, Jaca Book, Milano 1990, pp. 31-32.
4. M. Eliade, I riti del costruire, cit., p. 90.
5. M. Eliade, Ifigenia, trad. di C. Mutti, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2010.

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Hamas divulga i contenuti di una riunione svoltasi ad Amman

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Alcuni siti d’informazione vicini a Hamas hanno pubblicato il resoconto di una riunione tenutasi nella capitale giordana Amman il 27 febbraio.

I partecipanti a questo incontro, che aveva per tema il rafforzamento del blocco su Gaza,erano rappresentanti dei servizi segreti palestinesi, israeliani, americani, egiziani e giordani.

L’agenzia di stampa palestinese “Shihab” ha pubblicato il resoconto dell’incontro assieme ad una lettera dal capo dei servizi d’intelligence dell’Autorità Palestinese di Ramallah da lui inviata al suo presidente Mahmoud ‘Abbas.

Secondo questa lettera, “i servizi d’informazione presenti alla riunione hanno convenuto di rafforzare il blocco israeliano, riducendo le forniture di carburante e di medicinali destinati a Gaza”, nonché “di esercitare maggiori pressioni su Hamas affinché riconosca gli accordi firmati tra l’Autorità Palestinese e Israele”.

La lettera cita anche le “pressioni arabe su Hamas per fermare il lancio di missili sulle colonie israeliane, e il rafforzamento della cooperazione in tema di «sicurezza» tra i servizi segreti israeliani e di quelli palestinesi con quelli dei paesi vicini (Egitto e Giordania)”.

Infatti, “i primi segnali di tale coordinamento si sono palesati col permesso concesso a forze speciali egiziane di entrare nel Sinai allo scopo di monitorare le condotte che trasportano il combustibile, in modo che Hamas si sottometta alle condizioni per la «riconciliazione», conformemente alla visione di Sua Eccellenza il presidente Abbas e dei servizi di sicurezza alleati”.
In tutta risposta, l’Autorità Palestinese ha negato il proprio coinvolgimento, sostenendo che sia la relazione sia la lettera sono “false”.

Senza carburante, le interruzioni di elettricità a Gaza “sono fino a 18 ore al giorno”. Dal 2011, l’unica centrale elettrica di Gaza, che fornisce quasi un terzo dell’energia elettrica necessaria all’enclave palestinese, viene approvvigionata con carburante egiziano attraverso i tunnel tra Rafah e l’Egitto.

Fonte: Al-Quds al-‘Arabi + CPI

Traduzione di Enrico Galoppini

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Bambini-soldato tra gli insorti siriani!?

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“Gli insorti siriani che combattono le forze del Presidente Bashar Al Assad annovererebbero dei bambini nei loro ranghi, in violazione delle convenzioni internazionali che proibiscono il reclutamento dei bambini-soldato”, ha dichiarato a New York una responsabile delle Nazioni Unite.
“Secondo certe affermazioni, ci sarebbero dei bambini nell’Esercito Siriano di liberazione”, ha detto Radhika Coomaraswamy, Rappresentante speciale dell’ONU incaricata di tutelare i bambini nei conflitti armati. “Noi non siamo stati in grado di verificare la veridicità di queste affermazioni” – ha aggiunto.
La scorsa settimana, il gruppo di difesa dei diritti dell’uomo Human Rights Watch (HRW), con sede a New York, ha accusato alcuni gruppi dell’opposizione siriana di aver rapito, torturato e ucciso dei sostenitori del Presidente Assad e alcuni membri delle forze di sicurezza.
D’altra parte la Siria ha presentato un esposto alle Nazioni Unite, per denunciare i “gruppi terroristi” che operano in Siria e ricevono armi che entrano di contrabbando dal Libano e dagli altri Stati vicini.

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Consigliere di Sarkozy: “Gaza è una prigione a cielo aperto”

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Intervistato su «Radio J», una radio ebraica che trasmette da Parigi, Henri Guaino, in risposta ad una domanda su Gaza, ha dichiarato che essa è in effetti una prigione a cielo aperto, condannando coloro che collegano la situazione dei palestinesi agli omicidi commessi da Mohamed Merah a Tolosa.

“In un certo senso, Gaza è una prigione a cielo aperto, dal momento che queste persone non possono entrare né uscirne, e nemmeno possono farsi un bagno in mare …”. “Ho visto come si vive a Gaza. Non è una situazione che può andare avanti… la posizione della Francia e della maggior parte dei paesi che sono anche amici di Israele”, ha inoltre sottolineato.

Fonte: al-Manar (Libano), 27 marzo 2012


Traduzione di E. Galoppini

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Il mito della sfiducia nelle relazioni cileno-argentine

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Il 2 aprile si commemorerà in Argentina il 30º anniversario del conflitto del Sud Atlantico, che nel 1982 ha avuto come protagonisti la stessa Argentina e il Regno Unito in una disputa sulla sovranità delle isole Malvine, Georgia del Sud e Sandwich Meridionali. In questo clima e con la crescente escalation diplomatica tra entrambi i Paesi, due eventi attraggono l’attenzione dall’altra parte della Cordigliera delle Ande e nello specifico in Cile.

In primis l’arrivo a Santiago – il 12 marzo – del Segretario di Stato per gli Affari Esteri del Regno Unito Jeremy Browne per una visita della durata di due giorni. Non è irrilevante se consideriamo il secondo evento: la visita, nello stesso Paese, della presidentessa argentina Cristina Kirchner appena tre giorni dopo.

Parlare delle Malvinas in Argentina o farlo in Cile, inevitabilmente diffonde nell’aria una strana sensazione di “sfiducia”. Questo sentimento non nasce nel 1982, ma ha guadagnato forza e si è radicando nell’opinione pubblica già dal XIX secolo, durante il quale si assistette all’affermazione di entrambe i Paesi come Stati-Nazione.

Le ipotesi di conflitto vi erano nel XIX secolo e sono proseguite nel XX secolo: una consuetudine nel rapporto tra Santiago e Buenos Aires. I due Stati, eredi della Corona spagnola attraverso il principio uti possidetis iuris, hanno impegnato gran parte delle loro relazioni alla ricerca di soluzioni ai problemi di confine che si sono verificati dal momento in cui furono presentati i documenti storici sul terreno principalmente intorno alla Patagonia.

Nel 1978 il conflitto nel Canale di Beagle portò quasi alla guerra i due Paesi. Infine, nel 1984 è stato firmato il Trattato di Pace e Amicizia che ha determinato “la soluzione completa e definitiva” per tracciare la linea della controversia ed ha incorporato l’importante principio della soluzione pacifica delle eventuali controversie.

Quindi, se nel 1982 non è nato il sentimento di sfiducia reciproco a livello istituzionale, è vero anche che il conflitto nel Sud Atlantico è stata l’occasione per radicare fortemente tale sfiducia nell’opinione pubblica di entrambi i Paesi: l’Argentina, governata da una dittatura militare entrò in guerra contro una potenza militare senza il supporto del Cile che, governato dal dittatore Augusto Pinochet, scelse di sostenere la Gran Bretagna.

Ma questo sentimento di sfiducia che implicazioni reali ha nelle relazioni bilaterali?

La Concertazione dei Partiti per la Democrazia (meglio nota come La Concertazione) che governò il Cile dal 1990 al 2010, ha iniziato un graduale passaggio dalla posizione di sostegno materiale e politico al governo di occupazione coloniale delle isole – supporto che era stato caratterizzante della dittatura di Pinochet – ad un atteggiamento amichevole nei confronti di Buenos Aires. Secondo Christian Salas Leyton questo è accaduto, in primo luogo, con il tentativo cileno di affermarsi come un terzo attore conciliatore tra le parti e poi, diventando un vero e proprio alleato dell’Argentina nel recupero della sovranità sulle Isole.

Le relazioni attuali tra le due Nazioni dell’America Latina sono in un grande momento storico. L’Argentina è stata la prima tappa internazionale del Presidente Sebastian Piñera successivamente alla sua elezione. Le relazioni subnazionali sono cresciuti in modo significativo: il progetto di integrazione fisica si materializzerà con la realizzazione del progetto Tunnel Internazionale “Paso de Aguas Negras” nella regione IV – promosso con entusiasmo dal Governatore di San Juan (Argentina) e la Municipalità Regionale di Coquimbo (Cile). In questa direzione può essere citato quale esempio il desiderio di realizzare, in tempi rapidi, le Ferrovie Trasandino Nord, centrale e meridionale, accelerando le opere d’infrastruttura necessarie in ogni Paese per facilitare il movimento tra i porti sull’Atlantico e quelli che si affacciano sul Pacifico. Tuttavia, sembrano essere particolari le relazioni tra i ministeri della difesa volti a dissolvere definitivamente la tesi della sfiducia tra i due governi.

La Forza di Pace Combinata (iniziativa inedita della Regione che mostra il grado di cooperazione tra le Forze Armate) è un gesto di grande maturità nel rapporto bilaterale, che dimostra chiaramente la vocazione, di Cile e Argentina, alla costruzione di un futuro comune basato sulla cooperazione per la pace.

L’arrivo di Jeremy Browne in Cile e la sua critica nei confronti di Buenos Aires per il conflitto sulle isole Malvinas però, fa rivive il sentimento di sfiducia popolare nei confronti della politica cilena.

La diplomazia britannica ha fallito a metà gennaio, quando ha mandato in Brasile il suo Ministro degli Esteri William Hague in cerca di sostegno. Il Cile sembrerebbe l’ultima carta da giocare a livello diplomatico da parte del Regno Unito, ma il Paese trasandino è rimasto fedele alla sua posizione: avere un rapporto costruttivo con i suoi vicini, e in questo senso, sostenere “i diritti legittimi dell’ Argentina nella controversia relativa alla sovranità di dette isole” – come è già stato ribadito nel 2008 insieme ad Altri paesi della Regione Latina.

La visita di Cristina Kirchner in Cile può anche essere letta come un segnale di fiducia ufficiale nei confronti di Santiago e come una rifondazione delle relazioni tra i due Paesi. Sebastian Piñera ha dichiarato a tal proposito che “il passato è già scritto, ma il futuro dipende da ciò che sapremo costruire su questa unità”. In questo contesto, i programmi concordati relativi alla salute, alle infrastrutture, all’istruzione – non dimentichiamo quelli riguardanti la connessione fisica, come pocanzi citato, con il Tunnel Internazionale “Paso de Aguas Negras” che realizzerebbe il desiderio di un corridore tra Porto Alegre (in Brasile) e Coquimbo, nel Pacifico. Quest’ultimo accordo, naturalmente, concentra gli sforzi maggiori delle due nazioni dato che condividono la terza più lunga frontiera del mondo (5.300 km di lunghezza) – vanno a consolidare le intenzioni di cooperazione andina.

È sulla base di queste relazioni bilaterali che dobbiamo basarci quando valutiamo le relazioni argentino-cilene e queste rappresentano la base per impostarne una previsione futura.

Il rinnovo del sostegno cileno alla pretesa argentina sulle Malvinas e l’impegno a rispettare la disposizione secondo la quale, le navi che battono bandiera delle Falkland, non possono entrare nei loro porti (approvata dal UNASUR e il Mercosur) , rappresentano un altro fattore rilevante di cui tener conto nelle nostre considerazioni.

Il consolidamento e l’approfondimento dei legami a livello governativo, sarà positivo per rafforzare anche i legami tra le popolazioni in modo da dissipare il fantasma storico della sfiducia che, come è noto, aleggia solo nell’opinione pubblica. Sono i governi ad avere la responsabilità di non fare un uso politico di questa “sfiducia”, sentimento che potrebbe innescare altre forze più pericolose e capaci di mettere un freno a questo processo storico di consolidamento dei rapporti reciprocamente vantaggiosi; unico modo per costruire la Patria Grande Latinoamericana.

*Maximiliano Barreto è laureando in Relazioni internazionali all’Università Nazionale di Rosario (Argentina)

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La Corte Suprema americana consacra la sovranità israeliana su Gerusalemme

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Una decisione giuridico-politica dalle conseguenze politiche certe !
 
La Corte Suprema americana ha proclamato che i cittadini ebreo-americani nati a Gerusalemme possono considerarsi come nati in “Israele”. In precedenza il nome della Città Santa compariva come luogo di nascita ma – non riconoscendo gli Stati Uniti la sovranità israeliana su Gerusalemme – non compariva l’indicazione di “Israele”.
La decisione della Corte ha preso spunto da una richiesta di una coppia di nazionalità americana per il riconoscimento della nascita israeliana del proprio figlio, in quanto nato a Gerusalemme: la Corte ha accolto la richiesta.

E’ da sottolineare che gli Stati Uniti non riconoscono la sovranità israeliana, palestinese o giordana su Gerusalemme: per questa ragione ogni bambino nato a Gereusalemme e appartenente a una di queste nazionalità veniva registrato come nato a Gerusalemme senza ulteriori precisazioni.

Un tribunale di rango inferiore aveva rigettato l’istanza della coppia, argomentando che non aveva il potere di prendere una decisione che influiva sulla politica americana … La Corte Suprema invece ha deliberato rivendicando il suo diritto di intervenire sulla politica americana, anche in relazione alla situazione di Gerusalemme. A questo punto, grazie a questa sentenza, circa 50.000 cittadini ebreo-americani nati a Geruisalemme possono indicare “Israele” come loro luogo di nascita.

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Anche la Turchia nel mirino delle banche d’affari

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JP Morgan Chase all’attacco proprio dopo un recente rialzo della Borsa di Istanbul: la grande banca d’affari ha consigliato gli investitori di vendere le azioni turche, in forza di un asserito indebolimento della lira turca, del deficit delle partite correnti e …dell’aumento del costo del petrolio. Identica indicazione proviene dalla Goldman Sachs, che già a dicembre 2011 pronosticava l’hard landing, il pesante atterraggio dell’economia turca con conseguente recessione causata dall’impatto della crisi dell’Eurozona sull’export di Ankara.

“Il PIL nel 2012 subirà un netto calo” ha sentenziato Ahmet Akarlı, analista turco della Goldman Sachs. Il Fondo Monetario Internazionale, da parte sua, aveva parimenti suonato campane a morto con una previsione di crescita del 2,2 % per il 2012 (nel 2010 è stata dell’8,9 %, la percentuale più alta del G20 dopo la Cina, e nel 2011 non risulta essere di molto inferiore), reclamando tassi più alti dalle banche per “non surriscaldare” l’economia.

Le richieste degli “analisti internazionali” – quelli sui libri paga delle grandi banche d’affari – sono sempre le stesse, e suonano uguali in tutto il mondo: attenzione parossistica al “debito pubblico”, austerità, riduzione del “peso” dello Stato. E anche disincentivazione dei finanziamenti a buon mercato al mondo produttivo: in Turchia i dati del 2010 parlano di un aumento dei prestiti al consumatore pari al 42 %, il che ha garantito un impulso molto forte all’espansione economica del Paese, e questo viene considerato eccessivo – e visto con disappunto – da detti analisti.
La Turchia è un obiettivo importante della speculazione finanziaria: una nazione in crescita, dotata di grande liquidità, che in passato (in particolare negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso) ha dimostrato una spiccata propensione all’indebitamento nei confronti del Fondo Monetario Internazionale ma che ora sembra aver cambiato strada.

Una nazione che – per la sua importante e delicata posizione geopolitica – va controllata e messa sotto tutela, “globalizzandola” e sradicandone le pretese di sovranità; la tutela di tipo politico – ben visibile nei casi delle emergenze libica e siriana, in cui la Turchia si è conformata ai dettami occidentali, a dispetto di un’opinione pubblica alquanto perplessa – va completata con la tutela di tipo economico/finanziario, e in questo senso gli appelli provenienti dal mondo della speculazione internazionale si moltiplicano.

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AFRICOM, imperialismo, petrolio, geopolitica e “Kony2012”

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Mentre pochi criticherebbero l’incarcerazione del criminale di guerra ugandese Joseph Kony, i motivi della campagna video virale lanciata da una ONG dal nome angelico, sono meno chiari. Invisible Children ha offuscato il confine tra carità e politica, sostenendo un’azione militare diretta. Ciò che è chiaro, secondo Engdahl, è che “Kony2012” è propaganda manipolatrice utilizzata per far avanzare la presenza militare di AFRICOM nella regione mineraria più ricca del mondo, prima che la Cina e altri paesi stabiliscano la loro presenza.

 
 

Secondo il suo sito web, l’ONG statunitense Invisible Children ora afferma che il suo video “Kony2012” ha avuto oltre 80 milioni di spettatori sin dalla sua pubblicazione su YouTube, poche settimane prima. Per chi ha la pazienza di visionare l’intero video, resta discutibile la cifra di 80 milioni di telespettatori. Ottanta milioni non ha alcun precedente nella storia di YouTube.

Il video presenta personaggi di spicco di Hollywood, come Angelina Jolie, George Clooney, Lady GaGa, Bill Gates, Bill Clinton, Sean “Puff Daddy” Combs e altri notabili. Si tratta di una melensa storia sentimentale diretta da Jason Russell, 33 anni, regista statunitense, ora ricoverato in ospedale per aver subito, a quanto pare, un bizzarro trauma mentale per le strade di San Diego. [1] Il video su YouTube mostra un giovane ugandese, Jacob Acaye, con cui Russell afferma aver fatto amicizia una decina di anni prima, dopo che Acaye, un killer undicenne, era sfuggito dall’arruolamento nel Lord Resistance Army (LRA) di Joseph Kony. Il film ritrae Kony come la peggiore bestia e terrorista del mondo, difatti un Usama bin Ladin in Africa. [2]

L’ONG Invisible Children è di per sé opaca. Avrebbe rastrellato milioni dalla vendita di cose come spillette, T-shirt, bracciali e manifesti al prezzo di 30 – 250 dollari, ma si piazza in basso per quanto riguarda la trasparenza rispetto ai donatori. Il gruppo, che impiega circa 100 persone, prevede di raccogliere milioni di dollari dal video “Kony2012”, ma finora si rifiuta di dire quanto è stato donato e come si spendono i soldi.

I fondatori del gruppo, che sostengono l’intervento militare diretto degli Stati Uniti contro il LRA, era stato precedentemente criticato per aver posato armati a fianco di membri dell’esercito di liberazione del popolo sudanese (SPLA) nel 2008, un’organizzazione ampiamente accusata di stupro e saccheggio. Il gruppo ha rilasciato una dichiarazione, in risposta: “Abbiamo pensato che sarebbe stato divertente portare ai nostri amici e familiari una foto scherzosa. Sapete, ah, ah! hanno dei bazooka, ma stanno in realtà combattendo per la pace’ [3] Ah, ah!…”

Secondo il Guardian di Londra, i “conti di Invisible Children mostrano un’operazione ricca, che ha più che triplicato il suo reddito del 2011” a quasi 9 milioni di dollari, principalmente grazie a donazioni personali. Di questi, quasi il 25% è stato speso per viaggi e produzione video. La maggior parte del denaro raccolto è stato speso negli Stati Uniti, non per i “bambini invisibili” dell’Africa, o anche quelli visibili. Secondo le informazioni ottenute dal Guardian, “i resoconti mostrano che 1,7 milioni di dollari sono finiti negli stipendi dei dipendenti negli Stati Uniti, 850 mila dollari nei costi di produzione cinematografica, 244 mila dollari in ‘servizi professionali’ – si pensa ai lobbisti di Washington – e 1,07 milioni dollari nelle spese di viaggio. Quasi 400 mila dollari sono stati spesi per l’affitto degli uffici a San Diego.” Charity Navigator, un ente di valutazione degli enti di beneficenza degli Stati Uniti, ha dato all’organizzazione solo due stelle per la “responsabilità e trasparenza”. [4] L’USAID, l’agenzia del Dipartimento di Stato che coordina i suoi interventi all’estero con il Pentagono e la CIA, dichiara apertamente sul suo sito web che ha finanziato Invisible Children Inc. in passato. [5]

Joseph Kony

La cosa bizzarra di “Kony2012” è che Joseph Kony è fuggito o è stato ucciso in Uganda più di sei anni fa. Si sostiene sia fuggito nelle terre selvagge del Congo o dell’Africa centrale, quindi è un eco perfetto dell’inafferrabile Usama bin Ladin, cosa che giustifica l’azione militare degli Stati Uniti nei ricchi territori dell’Africa centrale, dall’Uganda alla Repubblica Democratica del Congo, al Sud Sudan, Repubblica Centrafricana, Uganda e oltre. [6] Come Joseph Kony, Usama bin Ladin era stato attendibilmente indicato morto in Afghanistan prima del suo assassinio inscenato dai Navy Seals un anno fa. Ma la sua leggenda è stata mantenuta viva per giustificare l’allargamento della guerra degli Stati Uniti contro il terrorismo, come ora con la leggenda di Joseph Kony, propagata da Invisible Children Inc. di San Diego. La questione non è se Kony abbia commesso atrocità, cosa fuori discussione. La questione è se “Kony2012” viene falsamente promosso per giustificare l’intervento militare degli Stati Uniti laddove sono indesiderati da tutti.

Un attivista dei diritti umani statunitensi in Uganda, in una recente intervista aveva dichiarato: “la campagna di Invisible Children è … una scusa che il governo statunitense adotta volentieri al fine di aiutare a giustificare l’espansione della sua presenza militare in Africa centrale. Invisible Children è un ‘utile idiota’ utilizzato da coloro che nel governo degli Stati Uniti cercano di militarizzare l’Africa, inviando sempre più armi e aiuti militari, e rafforzando il potere degli stati alleati degli Stati Uniti. La caccia a Joseph Kony è la scusa perfetta per questa strategia – come spesso fa il governo degli Stati Uniti trovando milioni di giovani statunitensi che implorano l’intervento militare in un luogo ricco di petrolio e altre risorse.” [7]

Il video “Kony2012” sarebbe accreditato al Congresso degli Stati Uniti per dare impulso alla richiesta d’inviare le forze militari statunitensi non solo in Uganda, ma nell’intera regione dell’Africa centrale, dove l’inafferrabile Kony e il suo esercito di soldati-bambini presumibilmente terrorizzano il territorio. Il democratico del Massachusetts Jim McGovern e il repubblicano Ed Royce hanno appena presentato una risoluzione al Congresso chiedendo ad AFRICOM del Pentagono (Africa Command) di procedere “aumentando il numero di forze regionali in Africa, per proteggere i civili e imporre restrizioni su individui o governi che sosterrebbero Kony”. [8] L’anno prima della messa in onda virale su YouTube di “Kony2012”, McGovern e Royce avevano anche sponsorizzato “The Lord’s Resistance Army Disarmament and Northern Uganda Recovery Act”. L’attenzione mediatica su YouTube facilita la loro proposta d’intervento militare. Dopo tutto, è “umanitario”, non si tratta di bambini, vero?

Anche il politically correct Washington Post si è spinto a scrivere criticamente, “La campagna virale per catturare Kony della ONG Invisible Children, è in gran parte un fenomeno statunitense. Gli ugandesi dicono che il LRA non è attivo da anni”. [9]

Già il presidente Obama ha inviato 100 truppe di elite delle forze speciali statunitensi in Africa Centrale, per operare come “consiglieri” nella caccia a Kony. Se tutto ciò ricorda il Vietnam dei primi anni ’60, non è un caso. Questo è il preludio dell’enorme militarizzazione da parte del Pentagono di tutta la regione dell’Africa centrale, dopo la distruzione dell’ordine in Libia da parte della NATO, e il caos inflitto all’Egitto e ad altri stati islamici interessati dalla “Primavera araba” del dipartimento di stato USA, meglio definibile in questi giorni come “incubo arabo”.

“Kony2012” è stato prodotto da una ONG apparentemente ben finanziata guidata da Russell, chiamata Invisible Children Inc. di San Diego. Il video puzza di propaganda del dipartimento di stato USA, con i suoi languidi effetti video e le ripetute scene del ragazzino Russell per farlo apparire credibile. Rosebell Kagumire, una premiata giornalista ugandese ha risposto al clamore del video “Kony2012” accusando Invisible Children Inc. di “utilizzare vecchi filmati per provocare l’isteria”. [10] Kagumire aggiunge: riguarda i dollari o la falsa convinzione che se gli statunitensi non lo sanno, non ne trarremmo nessuna soluzione a nostro vantaggio? … I colloqui di pace del Juba 2006-2008, che hanno restaurato la stabilità e avviato la fine dei rapimenti nel nord Uganda, non erano un’invenzione statunitense. E’ stata la società civile locale e attori come l’Iniziativa di pace dei leader religiosi di Acholi (ARLPI) che hanno spinto a una soluzione negoziata. Infatti, nel momento in cui gli USA sono stati coinvolti, abbiamo assistito all'”Operation Lightening Thunder”, un’operazione militare dagli effetti disastrosi, con l’LRA che eludeva gli attacchi aerei e si disperdeva nella RD del Congo e nella Repubblica Centrafricana, dove continuano a commettere atrocità per rappresaglia [11]

Tutto il trambusto su Joseph Kony sembra affiancare una grande campagna di AFRICOM e del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, volta soprattutto a minare l’influenza cinese in Africa centrale – ora che hanno scacciato con successo le compagnie petrolifere cinesi dalla Libia, e ritagliato la nuova “repubblica” del Sud Sudan, che contiene la maggior parte del petrolio che alimenta l’economia della Cina. La scissione del Sud Sudan e del suo petrolio, per chi non ha seguito da vicino, era una conseguenza dell’invio delle forze speciali degli Stati Uniti e della NATO per “fermare il genocidio” in Darfur. George Clooney era la facciata per l’azione in Darfur.
Ci sono buone ragioni per l’interesse apparentemente improvviso del Pentagono e delle ONG politicizzate statunitensi, nel concentrarsi sull’azione in Africa centrale. Finché il mondo l’ha in gran parte ignorato, la politica di Washington lasciava che le istituzioni come il FMI sfiancassero i paesi come il Congo e consentissero alle imprese minerarie occidentali di estrarre il prezioso patrimonio minerale, al prezzo di un penny per ogni dollaro. Qualche anno fa, tutto ciò iniziò a cambiare quando la Cina rivolse la sua attenzione verso l’Africa, e soprattutto sulla sua Belt Great Rift.
 
 


 

La Great Rift Belt dell’Africa

La regione in questione, secondo i realizzatori di “Kony2012”, comprende non solo l’Uganda, dove negli ultimi anni è stato scoperto un giacimento petrolifero gigante, ma anche alcune delle terre più ricche di minerali del pianeta – tra cui la Repubblica Democratica del Congo, la Repubblica Centrafricana e la Repubblica del Sud Sudan sponsorizzata dagli USA. L’area si trova nella straordinaria congiuntura geografica denominata Belt o Great Rift Valley, che si estende dalla Siria a nord, verso sud attraverso il Sudan e l’Eritrea e il Mar Rosso, e in profondità verso il Sud Africa, attraverso Congo orientale, Uganda, Kenya, Etiopia, Somalia e Mozambico.

Questo sistema dell’East African Rift, come dicono i geologi, è “una delle meraviglie geologiche del mondo”, e anche in prospettiva, uno dei tesori più ricchi di minerali del sottosuolo, comprese le chiaramente vaste riserve non sfruttate di petrolio e gas. [12]

Sin da quando la compagnia petrolifera britannica Tullow Oil ha scoperto circa 2 miliardi di barili di petrolio in Uganda, nel 2009, l’importanza geopolitica di tutta la regione dell’Africa centrale ha improvvisamente subito un cambiamento. La CNOOC Ltd., il più grande esploratore di petrolio offshore della Cina, è in una joint venture con la Tullow Oil per sviluppare tre blocchi petroliferi del bacino del lago Alberto, in Uganda. [13]

Secondo i geologi, “l’East African Rift è sospettata di essere uno degli ultimi più grandi giacimenti di petrolio e gas naturale della terra.” In un recente articolo, Time ha osservato che “i test sismici negli ultimi 50 anni hanno dimostrato che i paesi lungo la costa dell’Africa orientale hanno gas naturale in abbondanza. I primi dati raccolti dai consulenti del settore, suggeriscono anche la presenza di enormi giacimenti petroliferi off-shore”. [14]

Questa regione dell’Africa centrale e orientale è considerata una delle più interessanti regioni inesplorate del mondo, per potenziale di idrocarburi, petrolio e gas. Nel 2010, la compagnia petrolifera del Texas, Anadarko Petroleum, scoprì un giacimento gigante di gas naturale al largo della costa del Mozambico. Si stima che la Somalia detenga forse 10 miliardi di barili di petrolio non sfruttati. [15] L’agitazione politica cronica e le tensioni sostenute da AFRICOM, – convenienti per le major petrolifere occidentali, che cercano assurdamente di mantenere elevati i prezzi del petrolio attraverso il controllo dell’offerta – impediscono lo sviluppo del petrolio. Mentre l’Africa del nord e occidentale hanno subito decine di migliaia di trivellazioni di pozzi petroliferi, nel corso degli ultimi decenni, l’Africa centrale e orientale, tra cui Darfur, Sud Sudan, Ciad e Repubblica Centrafricana, sono tutte terre incognite in termini di perforazione.

Tutte questi dati schiaffeggiano il discorso popolare del “picco del petrolio.” Lungi dall’esaurirsi le risorse petrolifere e gasifere della Terra, le compagnie petrolifere quasi ogni giorno scoprono in tutto il mondo, dal Mediterraneo orientale al largo del Brasile, dal Golfo del Messico alla Belt Great Rift dell’Africa centrale e orientale, nuove enormi potenzialità. Non stiamo, come l’economista Peter Odell ha notato una volta, esaurendo il petrolio: “ma scorrendo sul petrolio.”

Il petrolio è una delle industrie più altamente politicizzate del pianeta, e la segretezza del settore tra le quattro gigantesche aziende anglo-statunitensi, fa apparire la CIA e l’MI6 dei dilettanti. Dopo la pubblicazione nel 1956 da parte del geologo della Shell Oil King Hubbert, della sua tesi non dimostrata [16] che i giacimenti petroliferi si esauriscono seguendo una curve a campana di Gauss, Big Oil ha favorito il mito dell’incombente scarsità di petrolio. Serve uno scopo evidente per mantenere la loro presa sulle fonti dell’energia primaria dell’economia mondiale. I petrolio e il suo controllo sono un fondamento geopolitico del secolo americano, dal 1945.

La Cina altera il calcolo geopolitico africano

Finché l’Africa è stato il “continente dimenticato” in termini di esplorazioni indipendenti di petrolio e gas, la politica di Washington era di ignorarla. Come l’ex presidente sudafricano Thabo Mbeki ha detto di recente, “liberati dall’obbligo di garantire la fedeltà dell’Africa indipendente nel contesto della sua lotta globale anti-sovietica, gli Stati Uniti hanno scoperto che l’Africa non aveva minore importanza in termini di interessi strategici globali”. [17]

Ma come Mbeki ha sottolineato, entro il 2007 tutto ha cominciato a cambiare quando la Cina ha iniziato a fare incursioni economiche e diplomatiche in tutta l’Africa: “C’è stata una crescente concorrenza internazionale per l’accesso al petrolio e alle altre risorse naturali dell’Africa, anche per la Cina. La Cina stava diventando un ‘concorrente temibile, sia per influenza che per i lucrosi contratti nel continente'”. [18]

Ma la visione di Washington della cosiddetta ‘globalizzazione’ del sistema economico mondiale, non consente che ci sia alcuno che non legga dal loro spartito musicale. Hillary Clinton l’ha detto abbastanza chiaramente: “Se avete delle persone che scelgono un percorso diverso, allora è necessario utilizzare tutti gli strumenti della vostra persuasione per cercare di convincerle che il percorso che intendete seguire è un bene anche per il loro interesse”. [19] George W. Bush lo ha detto più succintamente: “Siete con noi o siete contro di noi…”

La terza riunione ministeriale del Forum sulla cooperazione Cina-Africa (FOCAC), Pechino, 3 novembre 2006

Da quando la Cina ha ospitato più di 40 capi di Stato africani nel 2006, a Pechino, e la proseguì con le visite di Stato di più alto livello in tutta l’Africa – con le compagnie petrolifere e l’industria cinesi che firmavano accordi multi-miliardi con l’Africa “dimenticata” – Washington improvvisamente ha preso nota. Nel 2008, il presidente Bush ha autorizzato la creazione per la prima volta di un singolo comando del Pentagono, AFRICOM, per il continente africano. Come Daniel Volman, direttore del Progetto di ricerca sulla sicurezza africana di Washington, ha dichiarato: “una serie di sviluppi, in particolare l’importanza crescente del continente come fonte di approvvigionamenti energetici e di altre materie prime, ha radicalmente modificato il quadro. Essi hanno portato alla crescente partecipazione economica e militare di Cina, India e altre potenze industriali emergenti, in Africa e al riemergere della Russia come potenza economica e militare nel continente. In risposta, gli Stati Uniti hanno notevolmente aumentato la propria presenza militare in Africa e hanno creato un comando, il nuovo comando militare, AFRICOM o Africa Command, per proteggere ciò che hanno definito i propri “interessi strategici nazionali” in Africa. Questo ha innescato ciò che è conosciuto come il “nuovo assalto all’Africa” che sta trasformando l’architettura della sicurezza dell’Africa”. [20]

Dal 2012 la Cina è diventata il secondo più grande investitore straniero in Uganda, dopo la Gran Bretagna. E’ il principale investitore nelle risorse petrolifere del Sud Sudan. Nel luglio 2007, la compagnia petrolifera della Cina, CNOOC, ha firmato un accordo con il governo somalo per la ricerca di petrolio nella regione di Mudug, dove alcuni stimano che le riserve potrebbero ammontare da cinque a dieci miliardi di barili di petrolio. [21] Tra gli investimenti cinesi in questa parte d’Africa, vi è anche la joint venture che la CNOOC ha firmato con la Tullow Oil nel 2011, per i giacimenti ugandesi. [22]

Ciò che è chiaro, è che “Kony2012” non è infatti un documentario, ma propaganda manipolatrice, che viene utilizzata per far avanzare la presenza militare di AFRICOM nella regione mineraria più ricca del mondo, prima che la Cina e forse l’India e la Russia, vi arrivino. In ciò rievocando le guerre coloniali per le risorse del 19° secolo, cui unica differenza è la presenza della propaganda a velocità di curvatura su Internet e YouTube.

FONTE:http://libya360.wordpress.com/2012/03/26/africom-imperialism-oil-geopolitics-and-kony2012/


NOTE:

[1] Agence France-Presse, “Kony 2012: Uganda PM launches online response,” 17 marzo 2012.
[2] Jason Russell, Kony 2012.
[3] Julian Borger, John Vidal e Rosebell Kagumire, “Child abductee featured in Kony 2012 defends film’s maker against criticism,guardian.co.uk, 8 marzo 2012.
[4] Ibid.
[5] USAID, USAID/OTI Uganda Quarterly Report, Washington, DC, January – marzo 2009.
[6] Mike Tuttle, “Kony: Ugandan Says He’s Already Dead—Is Movement a Sham?”, 9 marzo 2012.
[7] Adam Branch, “Dangerous ignorance: The hysteria of Kony 2012”, Al-Jazeera, 12 marzo 2012.
[8] Stephanie Condon, “Joseph Kony resolution introduced in House”, CBSNews, 13 marzo 2012.
[9] Elizabeth Flock, “Forget Joseph Kony. What Ugandan children fear is the ‘nodding disease’,” Washington Post, 13 marzo 2012.
[10] Rosebell Kagumire, “More perspective on Kony2012”, 9 marzo 2012.
[11] Ibid.
[12] James Wood e Alex Guth, “East Africa’s Great Rift Valley: A Complex Rift System.
[13] Bloomberg News, “CNOOC in `Final Discussions’ With Tullow on Ugandan Oil Block Exploration”, 8 luglio 2010.
[14] Christian DeHaemer, “Cutting the Dark Continent”, 3 settembre 2010.
[15] Ibid.
[16] M. King Hubbert, “Nuclear Energy and the Fossil Fuels” (File Format: PDF/Adobe Acrobat), presentato prima della riunione primaverile della Divisione Southern District diella produzione, American Petroleum Institute, San Antonio, Texas, 8 marzo 1956. Pubblicazione No. 95.Houston: Shell Development Company, Exploration and Production Research Division, 1956.
[17] Thabo Mbeki, “Is Africa there for the taking?”, New African, Londra, marzo 2012.
[18] Ibid.
[19] Ibid.
[20] Daniel Volman, “The Security Implications of Africa’s New Status in Global Geopolitics”, Washington DC.
[21] Barney Jopson, “Somalia oil deal for China”, Financial Times, Londra, 13 luglio 2007.
[22] Xinhua, “China ranks second in investment in Uganda”, 8 gennaio 2010.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://sitoaurora.altervista.org/home.htm
http://aurorasito.wordpress.com

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Algeria: la CIA finanza quattro associazioni per i diritti umani

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La segretaria generale del Partito dei lavoratori algerini, Louisa Hanoune, ha accusato la CIA di finanziare quattro associazioni per i diritti umani.
Secondo il sito online del quotidiano londinese in lingua araba “Al Quds al Arabi”, Hanoune ha affermato di avere documenti che provano le sue accuse contro queste quattro organizzazioni, tra cui “Associazione Nazionale per la Difesa dei Diritti Umani” e “SOS Scomparsi”.
La Hanoune ha fatto appello per impedire i tentativi da parte di governi stranieri e organizzazioni per finanziare le campagne dei candidati per le elezioni legislative che si terranno a maggio e ha denunciato gli interessi stranieri “che cercano di equiparare la situazione in Algeria con la Tunisia e Egitto”.
Inoltre ha aggiunto che alcune amministrazioni “l’hanno contattata per chiederle di mandare negli Stati Uniti i deputati eletti del suo partito in maniera da seguire corsi di dialettica oratoria e come parlare e affrontare il pubblico.”
Tuttavia, ella ha affermato che “il leader di un partito politico in Algeria è tornato dagli Stati Uniti con un atteggiamento politico completamente differente da prima del viaggio”.
Lo scorso dicembre, la stessa leader sindacale ha annunciato che Washington aveva preparato un Consiglio di transizione d’Algeria con l’aiuto di alcuni partiti algerini, affermando di aver ricevuto tale informazione dal leader dell’Unione Sindacale dei Lavoratori degli Stati Uniti, Alain Benjamin. Ella ha fatto appello per l’introduzione di riforme reali per “non dare l’opportunità a che le potenze occidentali sfruttino le nostre prossime elezioni legislative per interferire nei nostri affari interni”.
Hanoune sospetta inoltre che il Consiglio nazionale di transizione (CNT) della Libia sia in combutta con gli statunitensi.

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Algeria: “La Lega araba non è più né Lega né Araba”

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Il ministro algerino di Stato e segretario generale del Fronte di Liberazione Nazionale (FLN), Abedelaziz Belkhadem, ha criticato la posizione della Lega Araba sugli eventi in Siria, stimando che tale posizione debba essere radicalmente rivista.
Belkhadem, che ricopre anche la carica di rappresentante personale del presidente algerino Abed Al-Aziz Bouteflika, ha detto a Radio Nazionale 3 – che trasmette in lingua francese – attraverso un’intervista diffusa pure dalla France Presse – che “la Lega Araba non è una lega e meno ancora araba. È una lega che utilizza il Consiglio di Sicurezza per intervenire contro uno dei suoi membri fondatori, o adopera la NATO per distruggere la capacità dei Paesi arabi”.
Inoltre, l’alto funzionario algerino ha sottolineato l’importanza “di por fine a ciò che sta accadendo in Siria e consentire ai siriani di decidere autonomamente il proprio futuro”.

SANA

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Tribunale ecuadoriano condanna compagnia petrolifera statunitense

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Un tribunale in Ecuador, la Sala Única de la Corte de Sucumbíos, ha confermato la sentenza contro gli Stati Uniti. Il gigante petrolifero Chevron ha ordinato alla società di pagare 18 miliardi di dollari di danni per i loro versamenti chimici nella giungla amazzonica. “Noi ratifichiamo la decisione del 14 febbraio 2011 in tutte le sue parti, compresa la condanna per danni morali,” ha segnalato il tribunale nella sentenza nella città amazzonica di Lago Agrio, nel nord-est dell’Ecuador, il 3 gennaio.

Da parte sua, il presidente Rafael Correa, che aveva espresso il sostegno pubblico per le comunità, si è detto molto soddisfatto del nuovo trionfo degli indios contro la compagnia petrolifera. “Siccome è stata emessa la sentenza di secondo grado, devo esprimere la mia soddisfazione, e credo che giustizia sia stata fatta”.
L Chevron, che opera in oltre 100 paesi, è la terza più grande società statunitense. Il suo reddito annuo è di oltre 200 miliardi di dollari, pari a quasi quattro volte la produzione economica totale dell’Ecuador.

I ricorrenti hanno sostenuto che la Chevron – che si è fusa con la Texaco nel 2001 – ed ha ereditato la causa diretta contro quest’ultima, è responsabile per lo versamento dei rifiuti di perforazione petrolifera nel bacino del Rio delle Amazzoni e per più di due decenni: esso ha causato diverse malattie tra le popolazioni indigene. L’esplorazione petrolifera Texaco in Ecuador è durata nel periodo 1967-1992 in un’area di 480.000 ettari.

Per secoli, la foresta era abitata solo da tribù indigene. Tuttavia, nel 1967, gli esperti statunitensi della Texaco scoprirono abbondanti riserve di petrolio circa tre chilometri sotto la superficie. Per 25 anni, un consorzio di aziende guidato dalla Texaco, ha scavato abbastanza in tutta la regione amazzonica dell’Ecuador. Esso ha anche costruito strade e un aeroporto nella regione, fino ad allora inospitale.

Nel 1993, un gruppo di circa 30 mila indigeni e contadini della Provincia d’Oriente, conosciuto come “Asamblea de Afectados por Texaco en Ecuador”, ha avviato una causa legale la quale, da principio, pareva un’iniziativa senza speranza contro la multinazionale americana. Essi sono stati rappresentati da diversi avvocati ecuadoriani e statunitensi che hanno promesso che avrebbero riscosso la parcella solo in caso avessero vinto la causa contro la multinazionale.

L’azione legale ha osservato che la Texaco avesse gettato 18 miliardi di galloni di rifiuti tossici nella regione; nel corso degli anni che ha operato ivi ha lasciato circa 356 pozzi di fanghi neri all’aria aperta tossico, molti dei quali si trovano in prossimità delle acque. In tal modo la contaminazione s’è spostata dal suolo ai bacini idrici. Si è avuto l’avvelenamento dei fiumi, carichi di zolfo e altri materiali tossici, la pesca è cessata, i bovini e gli altri animali della regione sono morti.

Nelle vicinanze vivevano almeno cinque tribù indiane. A loro avviso, il danno ambientale ha causato anche numerosi casi di cancro, aborti, malformazioni alla nascita e difficoltà nella procreazione tra la popolazione indigena. Due di loro, i Tetetes e i Sansahuaris sono scomparsi.

Il 14 febbraio 2011, la Chevron è stata condannata per la prima volta. Il giudice cuadoriano Nicolas Zambrano Giudice ha rilevato che la Chevron era responsabile del vasto inquinamento ampio e condannata a pagare 8.600 milioni di dollari in danni, la maggiore quantità mai richiesta in giudizio ad una società per danni ambientali. Tuttavia, la quantità è più che raddoppiata da quando la società non ha presentato le scuse per i danni all’ambiente, alla salute e alla cultura delle nazionalità indigene del Rio delle Amazzoni, requisito fondamentale nella prima sentenza.

La Chevron ha impugnato la sentenza di Zambrano, ma la Sala Única de la Corte de Sucumbíos ha confermato la condanna aumentando l’ammenda per il rifiuto della società di scusarsi.

La multinazionale statunitense, da parte sua, ha denunciato il giorno stesso la decisione della Corte d’Appello, definendola “illegittima” e “fraudolenta”. La società ha affermato che continuerà ricorrere ai tribunali, ma al di fuori di Ecuador. La società sostiene che la Texaco ha agito “completamente in linea con i requisiti legali e ambientali,” e ha speso 40 milioni di dollari per ripulire la zona durante gli anni Novanta, e firmato un accordo con l’Ecuador nel 1998 che l’avrebbe assolta da ogni ulteriore responsabilità. Un portavoce della Chevron anche ha affermato che non v’era “alcuna prova per sostenere” gli effetti nocivi per la salute legati allo sviluppo petrolifero nella Provincia d’Oriente e ha accusato gli avvocati della parte avversa di “perpetuare un’informazione falsa”.
La società ha inoltre citato l’avvocato statunitense Steven Donziger, l’architetto della causa contro di essa, per estorsione e frode. La Chevron ha anche annunciato che non svolge attività in Ecuador e non pagherà l’indennizzo stabilito nella sentenza.

Tuttavia, la società ha subito un’altra battuta d’arresto quando un giudice federale per il distretto meridionale di New York ha rifiutato il 3 gennaio il blocco d’attuazione della sentenza della corte d’appello ecuadoriana. Il giudice Lewis Kaplan, ha respinto una mozione della Chevron che cercava di evitare che i querelanti potessero sequestrare le risorse della Chevron stessa per raccogliere i milioni di dollari degli indennizzi, pur se la compagnia petrolifera ha avuto ancora la possibilità di tornare a fare una proposta.

L’azienda ha sostenuto nella proposta che avrebbe subito un danno grave, se non si assicurava la disponibilità delle proprie risorse, ma il giudice Kaplan ha affermato che “la Chevron non ha fatto sforzo alcuno fino ad oggi per quantificare le richieste di risarcimento danni”, nonostante la previsione della sentenza diffusa anche nei registri elettronici del sistema giudiziario statunitense.

“La decisione è un’altra reprimenda alla Chevron e arriva dopo una devastante sconfitta nella corte d’appello in Ecuador”, ha affermato Karen Hinton, nota portavoce dei querelanti ecuadoriani, all’indomani della sentenza del giudice Kaplan.

Nel frattempo, gli avvocati dell’”Asamblea de Afectados por Texaco en Ecuador” hanno annunciato che cercheranno di far eseguire la sentenza d’appello contro la Chevron, ma lamentano che la sentenza stessa non ha incluso altri danni come quelli causati dal fatto di versare petrolio sulle strade al fine di evitare il sollevamento di nuvole di polvere. “Ci sono accordi internazionali che consentono di dare esecuzione alle sentenze in altri Paesi”, ha detto Pablo Fajardo, un avvocato che conduce la causa contro la compagnia petrolifera. “Questo potrebbe includere l’embargo sui beni aziendali, confisca delle risorse, congelamento dei conti correnti e il sequestro delle raffinerie”.

Fajardo ha fatto queste osservazioni dopo che la Sala Única de la Corte de Sucumbíos ha emesso la propria sentenza in appello, che ha confermato la colpevolezza della società. “Questa vittoria è importante per la dimensione dell’avversario, che ha investito milioni per distruggere il Paese e il processo giudiziario, senza contare la corruzione di giudici e la fabbricazione di prove false” ha detto l’avvocato. “Questo è un traguardo della giustizia, della tenacia e della coerenza nei confronti del potere economico che discrimina la vita.”

Al manar

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Le Isole Malvine e la disputa per il petrolio

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I Paesi sudamericani, facenti parte dell’Unione delle Nazioni Sudamericane (UNASUR), hanno denunciato in una dichiarazione rilasciata durante il loro vertice il 18 marzo, i piani di esplorazione petrolifera nelle disputate Isole Malvine (o Falkland secondo la dizione imperialistica), tra crescenti tensioni tra iRegno Unito e Argentina per l’arcipelago.
L’UNASUR è stato creata nel 2008 e in essa vi sono i 12 paesi del continente sudamericano. “La presenza militare britannica nelle Falklands è contro la politica della regione per cercare una soluzione pacifica alla controversia sovranità sulla zona e i Paesi ribadiscono il rifiuto di tale presenza”, hanno dichiarato i ministri degli esteri dell’UNASUR nel documento.

I Paesi UNASUR hanno inoltre respinto “le unilaterali attività britanniche nella zona contesa, che includono, tra le altre cose, l’esplorazione e lo sfruttamento delle risorse argentine rinnovabili e non”.

Tuttavia, è stato il Venezuela che ha usato i termini più forti per esprimere il sostegno all’Argentina. Il ministro degli Esteri di quel Paese, Nicolas Maduro, ha detto ciò che “il Regno Unito ha fatto nelle ultime settimane è grossolano” e ha esortato l’UNASUR ad azioni più forti. L’atteggiamento del primo ministro britannico, David Cameron, e del suo ministro degli Esteri, William Hague, ha affermato Maduro, è connotato da “arroganza, prepotenze e disprezzo verso l’Argentina, e se contro l’Argentina, è pure contro di noi tutti”.
Il Regno Unito ha colonizzato le Isole Lavine, che si trovano a 300 miglia al largo della costa argentina, nel 1833. Da allora le isole, che hanno circa 3.000 abitanti, per lo più di origine britannica, sono state dichiarate territori britannici d’oltremare. Londra ha ignorato gli appelli dalle Nazioni Unite di avviare il processo di decolonizzazione e ha inviato nelle ultime settimane la nave da guerra più sofisticata, il cacciatorpediniere HMS Dauntless, e un sottomarino nucleare verso le isole per scoraggiare l’Argentina a lanciare un’operazione militare tesa a recuperare le isole, come accadde nel 1982.

Le compagnie britanniche

La dichiarazione dei Paesi del Sud America è stata respinta dai britannici che insistono sul loro diritto a sviluppare le risorse su quelle isole, la cui sovranità, Londra non è affatto intenzionata a rinunciare.

Col sostegno ufficiale garantito, le compagnie britanniche petrolifere hanno già iniziato le loro attività sulle isole. Recentemente, una società, la Rockhopper, ha annunciato che sta cercando un partner per un progetto di esplorazione del valore di due miliardi. Altre società britanniche, Borders & Southern Petroleum e Falkland Oil and Gas Ltd. hanno iniziato a sondare quest’anno due pozzi esplorativi in acque più profonde a sud delle isole.

Edison Investment Research, una società londinese di analisi finanziarie, ha pubblicato il mese scorso un rapporto ottimista sulle riserve di petrolio nelle Malvine. Secondo tale analisi, la zona a sud delle isole potrebbe avere fino a dieci volte più petrolio rispetto ai 450 milioni di barili, che costituiscono le riserve stimate del campo di Sea Lion, con un fatturato potenziale superiore a 100 miliardi di dollari.

L’Argentina sostiene che l’esplorazione ed estrazione di petrolio da parte del Regno Unito sono illegali, e si è ripromessa di intraprendere azioni legali contro le compagnie che effettuano tali operazioni. “Intraprenderemo azioni amministrative, civili e penali nei confronti delle imprese coinvolte nell’esplorazione,” ha detto il ministro degli esteri argentino, Hector Timerman. Ha ribadito che l’Argentina aveva già comunicato a tali aziende “che agiscono illegalmente”.

Le speranze degli isolani

Nel frattempo, gli abitanti delle Malvine si aspettano il petrolio per dare una spinta maggiore all’economia delle isole, che fino a poco tempo fa era quasi inesistente. La maggior parte di essa ruotava attorno alla produzione di ovini e dell’agricoltura di sussistenza. Il maggior numero degli abitanti viveva grazie alle sovvenzioni provenienti dal Regno Unito.

Dopo la guerra del 1982, la situazione è cambiata per due fattori: la concessione delle licenze di pesca, che ha portato alla creazione nelle isole di rappresentanti di varie società internazionali di pesca e la creazione di strutture militari e navali.

Oggi, gli isolani godono di un reddito pro capite di 50.000 dollari e sono state istituite diverse aziende nel territorio. I residenti ora si aspettano che il petrolio possa migliorare ulteriormente la salda economia delle isole, e gli ottimisti ritengono che le isole potrebbero diventare – grazie ai proventi del petrolio, alle royalties e alle imposte –un luogo di enorme ricchezza e sviluppo. Tutti si attendono un vigoroso miglioramento in materia di occupazione e infrastrutture, anche se alcuni temono che la vita pacifica dell’arcipelago venga meno con l’arrivo massiccio di tecnici e nuovi abitanti.

Molti credono che – consapevole della ricchezza petrolifera immensa che racchiudono le isole – l’Argentina aumenterà le sue azioni volte a ripristinare la propria sovranità sulle Malvine e ciò potrebbe condurre ad un aumento delle tensioni con il Regno Unito nei prossimi anni.

Al manar

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Simone Santini – Iran 2012. L’imperialismo verso la prossima guerra? Scenari, cronache, retroscena. Con la prefazione di Giulietto Chiesa

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IRAN 2012 – L’imperialismo verso la prossima guerra? Scenari, cronache, retroscena

di SIMONE SANTINI – Prefazione di GIULIETTO CHIESA
Pubblicato da EDIZIONI ALL’INSEGNA DEL VELTRO (Parma, 2012), pagg. 260

Il libro. Iran 2012. La profezia di un’apocalisse? La previsione di una guerra contro l’Iran torna a rimbalzare, da anni, nel dibattito pubblico, ogni volta smentita dai fatti. Anticipare lo scoppio di una guerra può essere esercizio intellettualmente stimolante ma probabilmente inutile, poiché, se la guerra scoppierà, essa non sarà conseguenza di un accidente della storia ma un suo determinato e specifico prodotto. Molto più utile, dunque, indagare le cause profonde, i contesti, gli scenari che potrebbero o meno condurre a questa guerra, con la consapevolezza di come il laboratorio iraniano rappresenti il microcosmo attraverso cui interpretare il tempo contemporaneo, scosso da innumerevoli e profondissime crisi, e il suo sviluppo futuro. Il filo rosso che percorre tutta l’opera è il tentativo di ricostruire, aldilà delle manipolazioni e fraintendimenti operati dalla pubblicistica mondiale, tutti i possibili contorni dell’intricata crisi iraniana, in alcuni casi sfatando miti e svelando inganni, offrendo uno strumento di analisi e comprensione. Un tentativo di verità. E libertà.

Sinossi. Nel primo capitolo si illustra il tema della corsa iraniana al nucleare inserendolo nel contesto mediorientale, evidenziandone il senso profondamente politico e dimostrando come proprio sul tema nucleare si misuri la supremazia dell’Occidente, particolarmente attraverso Israele, su questa area cruciale per gli equilibri geopolitici.
Si ripercorre la cronistoria del dossier nucleare iraniano, dal suo concepimento negli anni ’70 fino agli sviluppi più recenti. Particolare attenzione è dedicata a ricostruire gli snodi del 2005, con la rivitalizzazione del programma atomico voluta da Ahmadinejad, ed il complesso percorso diplomatico che ha condotto, finora, ai fallimenti del 2009-2010 ed all’imposizione delle sanzioni, illustrando strategie e motivazioni.
Nel secondo capitolo sono esaminati il contesto geopolitico odierno e le ideologie alla base dell’edificazione del Nuovo Ordine Mondiale. Si approfondiscono quindi i rapporti tra Stati Uniti e Cina, da un lato, e Stati Uniti e Russia dall’altro, e la loro intima connessione con la crisi iraniana.
Nel terzo capitolo si affrontano alcuni dissidi inter-islamici. In particolare le influenze delle vicende irachene sul vicino stato iraniano e la nascita di un asse arabo-sionista, ovvero occidentale-sunnita, in chiave anti-iraniana e anti-sciita.
Nel quarto capitolo ci si concentra sulle dinamiche politiche interne all’Iran. Le strutture della Repubblica islamica, i dissidi e le lotte di potere, gli scontri ideologici. Particolare attenzione è dedicata alla figura dirompente di Mahmud Ahmadinejad; all’analisi delle elezioni presidenziali del 2009 ed alle successive proteste; all’uso del terrorismo, nelle sue molteplici varianti, contro la nazione iraniana; allo strumento della propaganda mediatica con l’analisi di due casi di scuola: le vicende Neda e Sakineh.

L’autore. Simone Santini, giornalista. Nel 2001 è tra i fondatori del magazine on-line Clarissa.it (www.clarissa.it) di cui ricopre attualmente il ruolo di coordinatore (capo-redattore).
Ha pubblicato su Clarissa.it oltre 50 tra saggi brevi e analisi di approfondimento, e circa 300 articoli divulgativi ed editoriali, occupandosi principalmente delle seguenti tematiche: analisi geopolitiche ed economiche; analisi di processi comunicativi e media; divulgazione e commenti di avvenimenti di politica internazionale, in particolare riguardanti il Medio Oriente e l’Iran.
Dal 2008 i suoi articoli sono, in modo continuativo, ripubblicati sul web da Antimafia Duemila (www.antimafiaduemila.com) e Megachip (www.megachip.info), sito fondato dal giornalista e scrittore Giulietto Chiesa.

INDICE GENERALE

PREFAZIONE di Giulietto Chiesa 5

INTRODUZIONE 13

Capitolo 1
UNA BOMBA ATOMICA PER AMICO
15
1. Il contesto politico mediorientale e il nucleare 15
2. Il dossier nucleare iraniano.
Una cronologia essenziale (1974-2009) 32
3. Un caso esemplare: i “buchi” della diplomazia e il ruolo
della AIEA 38
4. Cronache da un fallimento 47
5. Verso le sanzioni 59

Capitolo 2
UN NUOVO ORDINE MONDIALE
75
1. Ideologie imperiali 75
2. Il Grande Gioco: Stati Uniti, Cina, Iran 88
3. Il Grande Gioco continua: Stati Uniti, Russia, Iran 99

Capitolo 3
FRATELLI COLTELLI
107
1. Iraq. Un buco nero? 107
2. L’Asse arabo-sionista 119

Capitolo 4
BAGLIORI DI UNA GUERRA SEGRETA
131
1. Chi comanda in Iran? 131
2. Mahmud, il nemico perfetto 143
3. L’onda verde e l’onda rossa 179
4. Terrorismi 193
5. Ultimi fuochi. Prospettive e conclusioni 225

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE 250

INDICE DEI NOMI 252

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Fatwa pakistana afferma che la riapertura dei percorsi NATO è “anti-islamica”

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Secondo il quotidiano pachistano “The News”, una cinquantina di studiosi islamici affiliati al Consiglio Sannita dell’Ittihad hanno emesso una fatwa congiunta, stabilendo che riaprire le vie di rifornimento per la NATO è contraria all’Islam, ed invita l’ira dell’Onnipotente.
In una dichiarazione rilasciata il Venerdì, hanno messo in guardia che “qualsiasi tipo di collaborazione con un esercito occupante che uccide musulmani innocenti nel paese fratello dell’Afghanistan è vietata sotto la legge dell’Islam, e invece di fornire approvvigionamenti alle forze della Stati Uniti e la NATO, il Pakistan dovrebbe costringerli a lasciare l’Afghanistan subito”.
Gli studiosi islamici affermano nella loro fatwa che anche il minimo aiuto ad un esercito aggressore è proibito dall’Islam. Essi sottolineano che l’ostilità degli Stati Uniti verso l’Islam e il Pakistan è diventata evidente in molti episodi nel passato e ricordano che Washington ha ucciso centinaia di migliaia di musulmani in Afghanistan e in Iraq e centinaia di pakistani innocenti nei loro attacchi coi droni.

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